mercoledì 20 ottobre 2010

L'"Orazio" di Heiner Müller portato in scena a San Pietro in Cariano (VR)

Titolo originale: Der Horatier.
Prima rappresentazione assoluta: Berlino, Schiller Theater, I° marzo 1973.



Domenica 17 ottobre, ho assistito al monologo L’Orazio testo scritto negli anni Settanta da Heiner Müller, uno dei massimi drammaturghi del Novecento, insieme a Brecht, Pirandello, Beckett e Ionesco.
L’Orazio risulta di un’attualità fin sconvolgente e, in attesa che Leonardo Franceschetti e Maurizio Zanolli replichino questo splendido monologo, mi sono sentita in dovere di scrivere un breve articolo di commento, nella speranza di invogliare quante più persone, specie i giovani, ad andarlo a vedere.
E perché non approfittare della disponibilità di questi eclettici artisti veronesi al fine di proporre il monologo nelle scuole superiori di Verona? Potrebbe essere un ottimo punto di partenza per una riflessione sul mondo in cui viviamo, di poco cambiato rispetto a quarant’anni fa, sotto il profilo della confusione etica.

L'ORAZIO

"Ogni volta che pronunciamo una parola,
inconsapevoli, creiamo un mondo."

Gilberto Fulgenzi
Cosmogonie indolenti, e altri fiatlux (1971)

Entrare, quasi al buio, in una soffitta e prendere posto su delle seggiole mentre lo spettacolo è già iniziato.
In sottofondo, Daniele Silvestri canta Il mio nemico.
Un uomo sta in ginocchio davanti a una ventina di quotidiani, tutti comprati il giorno stesso, e li scruta, uno ad uno, senza capire che contenuto stia dietro a tutte quelle parole messe insieme secondo un criterio sfuggente, volutamente incomprensibile.
È la storia di oggi. L’informazione frammentaria, depistante, centrifugata e passata al frullatore, senza più amore nell’utilizzo delle parole, abbandonata ai facili cliché, alla ricerca dello slogan.
Sedere sulle seggiole e guardare l’uomo che, disorientato, appende delle pagine, prese a caso dal mucchio, a un muro invisibile.
Le parole hanno perso il loro senso, non è più possibile decifrare quale sia il messaggio che stanno veicolando.
Le parole sono state uccise.
L’uomo prova una rabbia incontenibile e toglie dal muro tutte le informazioni finte, fuorvianti, che aveva raccolto con tanta pazienza.
Pazienza che ora gli sembra solo ingenuità.
E questo suo gesto apre uno squarcio nel passato.
Sulle seggiole non si è più tranquilli, perché qualcosa ha spezzato la barriera tra attore e pubblico, tra detto e non detto, ma anche tra presente e passato.
Ed è proprio in questo momento che il passato irrompe, riprendendo con la furia ironica di Heiner Müller la vicenda degli Orazi e dei Curiazi raccontata da Livio.
Non identica, anzi, ben diversa, con una serie di implicazioni impreviste, che colpiscono non già per le libertà prese rispetto al resoconto del celebre annalista, quanto per la marcata volontà di dire… altro.
L’Orazio è solo.
Non ci sono i due fratelli.
È l’unico a combattere per Roma.
Ed a lui è affidato tutto il dramma e pure il dilemma etico di cui neppure si accorge. Saranno gli altri a viverlo. Lui si muove secondo un cieco credere in una verità non discussa: Roma viene prima di tutto.
Io sono il signore tuo dio, tu non avrai altro dio al di sopra di me.
Orazio vede Roma né più né meno che così. Come un valore indotto a cui prestare fede, dedizione, se necessario anche la vita.
Essere seduti sulle seggiole e vedere un uomo che dipinge su dei pannelli la storia di Orazio, il suo ineludibile destino che lo costringe ad essere sia un eroe sia un assassino, ed ascoltare la stessa storia, ma recitata, raccontata a parole, porta a dover focalizzare il tutto con due sensi diversi, combinati in stereofonia.
Udito e percezione visiva si fondono, divengono una sola cosa.
Il cinema, soprattutto quando ricorre agli effetti speciali, non riesce a produrre uno sconvolgimento simile.
Ma l’Orazio proposto da Leonardo Franceschetti, Maurizio Zanolli e Alessandro Bonesini sì. Perché è capace di far emergere una consapevolezza che vive, vibra, si fa parola, musica, disegno, luce ed ombra.
Essere seduti su quelle seggiole vuol dire diventare parte di uno spettacolo che è vita vera, che travolge e incanta.
Orazio è l’eroe che decreta la sconfitta dei nemici di Roma, i Curiazi di Alba. Ma uno di loro, quello che lui stesso ha ucciso, era fidanzato con la sorella di Orazio. Ed egli, di ritorno vincitore, non sopporta le sue lacrime. Così le trafigge il petto con la stessa spada con cui aveva dato la morte al suo amato.

Adesso va da lui, che ami più di Roma. E questo accada a ogni donna romana che pianga il nemico.

Da qui il dilemma, reso sottilmente linguistico da Müller: Orazio è un eroe o un assassino?
Se è un eroe, dovremmo porgli l’alloro sul capo, se è un assassino, giustiziarlo. Ma Orazio può essere due uomini nello stesso tempo?
E qui scatta l’incapacità di cogliere le sfumature, di leggere bene e male come opposti che sempre sono compresenti. Il popolo vuole sapere se Orazio è un eroe o un assassino. Lo esige. Non accetta compromessi. I compromessi, come oggi sappiamo, sono i giochi di prestigio dei politici e dei giuristi, ma l’anima ingenua del popolo – nella sua pura ignoranza – non li può concepire.
Essere seduti su quelle seggiole vuol dire interrogarsi sui disegni di Maurizio Zanolli, che con sferzate di colore gioca a confondere il bene e il male. Vuol dire ascoltare le parole di Leonardo Franceschetti, che conferiscono forza e rendono più attuale che mai il messaggio espresso dal testo di Müller. Un testo mai censurato, sebbene scritto negli anni Settanta, in una Germania dell’Est che non conosceva, se non per intuito, il significato della parola «libertà». Vuol dire riflettere sulla presunta libertà che oggi ci illudiamo di vivere.

Sì, perché mentre si è seduti su quelle seggiole, coinvolti da una trama che inchioda e un impatto visivo che ti impedisce di distogliere anche per un solo istante l’attenzione, si avverte sorgere una domanda, a cui non si riesce a dare forma immediatamente.
Quella domanda ti si ripresenta forse dopo dieci minuti, un’ora dopo o nel giro di qualche giorno. E allora scopri che non era solo una domanda. Era un interrogarsi sul senso della vita in modo profondo, senza finzione, e proprio per questo ci ha messo tanto ad affiorare.
Oggi tutto spinge ad evitare il confronto con noi stessi. La filosofia ha smesso di essere un pungolo dell’animo nel momento in cui sono nati i quiz televisivi, che sostituiscono alla domanda di Müller – Orazio era un eroe o un assassino? – domande su chi ha vinto il Festival di San Remo nel ’79 o qual è il secondo nome di battesimo della Marini.
Se è questo, ormai, a fare la parte da leone rispetto ai dilemmi etici della vita, poi non stupiamoci, noi seduti su quelle seggiole, di sentire vacillare l’opinione pubblica nei processi di casa nostra.
In modo non dissimile dall’Orazio, lasciato in balia del giudizio popolare, la confusione regna sovrana.

È un assassino?
È un vincitore?
Ha fatto bene?
Ha sbagliato?
Risolvere i dilemmi etici, da che mondo è mondo, è ardua impresa. Non impossibile, a mio avviso.
Ci sono valori che, in qualche modo, sottendono il nostro modo di vivere e che si rendono riconoscibili come degni di essere salvaguardati, difesi, promossi, protetti.
Ma non sono valori assoluti.
I nostri valori dipendono dalle parole più di quanto ci sia dato sospettare.
Ripenso all’illuminante saggio di Aldo Giorgio Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, dove balza agli occhi una frase palpitante di verità: «Noi siamo il nostro linguaggio».
Tutta la nostra vita, tutte le nostre conoscenze, perfino i nostri valori, sarebbero impossibili senza il linguaggio, il quale diventa ad un tempo il limite della conoscenza e il mezzo, il solo mezzo, per attuarla. In altri termini, noi indossiamo una «pelle linguistica» dalla quale è pressoché impossibile uscire.
E i nostri valori ne fanno parte.
Questa consapevolezza dovrebbe portare ad una riflessione matura, che ci renda capaci di comprendere il gioco a cui siamo stati iscritti, forse nostro malgrado, e cogliere le sottili differenze che separano l’aspetto ludico da quello sensibilmente umano.
Immedesimarsi nel sentire altrui, comprendere che gli altri non sono solo figure, comparse di un video-game, ma esseri umani che come noi hanno paure, dubbi, momenti di rabbia e sconforto, potrebbe essere la più piena risposta al dilemma presentato da Müller: chi sei tu? Chi sei, persona che ho davanti?
Nel caso dell’Orazio il dilemma assume tinte tragiche: costui è un eroe o un assassino? E la risposta viene cercata in convinzioni sterili, suffragate dal nulla.

Ma è possibile trovare l’etichetta giusta per catalogare una persona?
Orazio può essere condannato o assolto a seconda dei valori dell’epoca in cui vive. Nell’antica Roma poteva essere un eroe e un fratricida. E lasciare il dilemma. Oggi, vai a sapere… Ma Müller insinua un’altra soluzione, sottile e di fine sarcasmo: l’eroe muore laddove il suo senso etico vacilla.
Nel momento in cui Orazio uccide la sorella, ha varcato la soglia tra il bene e il male, ha deposto ogni pretesa di essere un eroe.
Ma, diciamola tutta, Müller aveva dipinto la mancanza di senso etico di Orazio già prima. Quando, di fronte al nemico sconfitto, si rifiuta di accogliere la sua richiesta di pietà. Non gli importa né dell’uomo che uccide, né della sorella. Roma vince su tutto, dentro il suo cuore.
Il problema etico e quello linguistico sembrano essere diversi. Ma lo sono solo se non si affrontano d’ensemble, cogliendo le implicazioni dell’uno con l’altro. È con un uso volutamente distorto delle parole che ci viene fatto credere che il mondo sia in un certo modo, sempre se non siamo abbastanza scaltri da non cascarci.

Orazio è poco scaltro. Pensa con la spada, non con la mente. Ricorda uno dei nostri ragazzini, venuti su a battaglie combattute nelle play-station o nelle x-box, dove realtà e finzione si mescolano senza lasciare il respiro di una riflessione. E per questo il suo destino è scontato: verrà giudicato e ucciso due volte, sia da coloro che lo sostengono, sia da coloro che lo denigrano.
L’appello del padre, in lacrime, che vorrebbe prendere il suo posto, non servirà a nulla.
Come è giusto che sia.
Laddove l’etica è solo una parola spezzata, che ha perduto il suo significato, non si può pretendere che venga compresa.
E così nell’Orazio le parole, il solo grande tesoro di cui dovremmo tenere conto, vengono infangate, rese ambigue, spezzate, irrise, ed infine salvate.

Perché le parole devono rimanere pure.
Perché una spada può essere spezzata e anche un uomo può essere spezzato, ma le parole non possono essere spezzate nell’ingranaggio del mondo, essendo loro che rendono le cose conoscibili o inconoscibili.
Per noi uomini, l’inconoscibilità delle cose è mortale.

La nostra pelle linguistica è un limite, ma anche un immenso dono. Altrimenti come avrei potuto scrivere queste poche righe, nelle quali, spostandomi da un piano all’altro, tendo una mano a chi vuol capire?

Torno a sedermi sulla seggiola, chiedendomi se sia ancora possibile un’etica a misura d’uomo, un modo di affrontare la vita senza paraocchi e false distrazioni, con consapevolezza e rigore filosofico.
E rivedo Maurizio Zanolli e Leonardo Fanceschetti, che con amore e rabbia, raccontano il loro sentire lo stesso bisogno.
Con parole piene, capaci di trasmettere il vero, e pennellate incisive, che del vero si fanno tramite.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

alla fine di un paragrafo, mi pare il secondo, all'ultima riga, c'è scritto liberà anzichè libertà....e secondo me hai ripetuto troppe volte "è un eroe o un assassino?" per il resto bene anche se...bo forse non rende perfettamente l'idea e comunque ci ho messo troppo a leggerlo era lungo... ma no è solo perchè ho sonno

Claudia Maschio ha detto...

Grazie per la precisazione, carissimo Anonimo! Ho provveduto a correggere la parola "liberà".
Sul tema delle ripetizioni, ahi, ahi, ahi! Tasto dolente. Uno scrittore dovrebbe evitarle.
Ma se ti dicessi che quelle ripetizioni sono volute?
Faccio un esempio. Se scrivo: "Quella notte non si vedeva a un palmo di naso, perché la notte avvolgeva ogni cosa", ok, la ripetizione di "notte" due volte è sgradevole. La seconda volta si potrebbe sostituire con "buio" e la frase risulterebbe di certo migliorata.
Ma a volte le ripetizioni servono per dare enfasi, specie quando è lì che si vuole calamitare l'attenzione.
Ed è questo il caso del ripetere, con una certa insistenza, la dialettica tra eroe e assassino.
Detto questo, può darsi che tu abbia colto altre ragioni per evitare quella ripetizione. E, visto che eri stanco, non sei riuscito ad esprimerle. Ti assicuro che non c'è fretta! Quando vorrai esplicitare meglio il tuo pensiero, che di certo sarà ricco di spunti interessanti, ti risponderò al volo.
Per quanto riguarda la lunghezza del mio breve articolo, consentimi una piccola punta di ironia: "troppo lungo" è il problema dei giovani d'oggi, i quali dubito leggeranno mai la "Recherche" di Proust.
Ma non intendo affatto metterti nel mazzo! Anzi, se sei riuscito ad affrontare un articolo tanto complesso a tarda ora, meriti solo un applauso e tutto il mio rispetto!

P.S. Mi piacerebbe se rivelassi la tua identità, caro Anonimo, benché ai miei occhi sia più che palese...