Sanira
appoggiò il grembiule al bancone del locale. In agosto, non si sapeva quanta
gente venisse fagocitata a Verona, vuoi per la stagione lirica, vuoi per andare
a sospirare sotto il balcone di Giulietta.
“Neanca dal papa i ghe va in tanti”
assicurava la Mariuccia,
che ogni giorno era lì di prima mattina per le pulizie. “E tutto per palpar ‘na
tetta de bronso! Vuto sentir, Sanira, se non le è mejo le mie, de carne vera?”
La
Mariuccia
aveva occhi vispi e cosce formose, uno sguardo malizioso che stuzzicava
l’appetito. Ma Sanira si era imposto di non darle corda. Essere gentile sì,
cosa gli costava? Neppure a un gatto, lui, avrebbe negato un gesto di affetto.
E i gatti li detestava. Per quel loro modo ruffiano di essere. Se n’era trovato
uno in camera, qualche sera prima. Aveva lasciato la finestra aperta, la
mattina, giusto per non ritrovarsi in una sorta di forno, dopo una giornata di
lavoro. Cappuccini e brioche all’ora di colazione, per pranzo insalatone e
lasagne, spritz aperol all’happy hour, pizze alle diciannove e Cognac dopo le ventidue;
e poi tutto invertito, perché i tedeschi funzionavano al contrario,
pastasciutta all’ora del cappuccino, dessert al posto dell’aperitivo, una pizza
a metà pomeriggio… E lui sempre a correre dai tavoli al bancone, dal bancone
alla cucina, senza mai una pausa.
Manisha, oh, cosa avrebbe dato per
averla con sé, anche solo una mezzora!
Lei avrebbe saputo come fare con il
gatto. Di che razza fosse, Sanira non aveva saputo deciderlo. “Forse siamo
tutti una stessa razza” si era detto, lì per lì. Ma aveva avuto troppa paura di
quel gatto, gli occhi che illuminavano la stanza, minacciosi, per portare fino
in fondo quell’accenno di dubbio che gli era sorto spontaneo. Lo aveva
scacciato via, per poi ritrovarsi con un senso di amaro in bocca che, anche a
distanza di giorni, non era riuscito ad addolcire. E così aveva lasciato sempre
la finestra aperta, nella speranza che quel gatto spelacchiato, randagio quanto
lo era lui, un giorno o l’altro facesse ritorno.
Rientrò nel suo piccolo appartamento,
Sanira, che erano le tre passate. Per strada aveva trovato Nihal, uno che non
aveva mai capito da che parte dell’Asia venisse. Parlava sempre troppo in
fretta, e le parole hanno bisogno di scivolare lente, per essere capite. Nihal
aveva rimediato una bottiglia. Sanira odiava il Bardolino, ma non aveva opposto
resistenza. Un bicchiere e via.
Tanto
la mia vita cos’è?
Poi era corso a casa. Nessun gatto.
Sulla finestra un piccione, grigio all’ombra della notte. Sanira andò ad accendere
il pc. Cestinò le mail pubblicitarie, gli inviti a mostre e convegni letterari.
Ma quando mai avrebbe avuto tempo per cose simili? E finalmente trovò la
lettera di Manisha. Il piccolo dormiva – quando
verrai a conoscere tuo figlio, Sanira? – lei era stata alzata a lungo, si
era anche fatta bella, sperando che potessero vedersi in web cam, ma alla fine
era crollata. Qui ogni giorno è
difficile, Sanira, quanto lo è per te lì. Domani resisterò più a lungo. Non
smetterò mai di aspettarti. Ayu bowan.
Nulla è più silenzioso di una lacrima
che se ne esce all’improvviso, la lacrima inattesa, imprevedibile, quella che,
sfuggendo al controllo, apre un solco di pensieri nuovi, sentieri spalancati
sul mai considerato.
Sanira cercò di immaginare come si
fosse vestita sua moglie. Ricordava i denti di avorio, le labbra sorridenti, il
suo modo di camminare, la pelle profumata di sole e cioccolata, i grandi occhi
che lo facevano precipitare in una voragine di mistero.
Vederla oltre lo schermo, vicina e
insieme lontana, presente eppure irraggiungibile, gli procurava una lacerazione
dell’anima. Molto meglio indulgere tra ricordi e fantasie, spogliarla con
l’immaginazione e amarla nel sogno. Domani glielo avrebbe raccontato, domani
nessuno gli avrebbe impedito di giungere a casa in tempo.
Volse lo sguardo al davanzale. Il
piccione era volato via. Oh, perché si era scordato di legargli alla zampa un
messaggio di amore? Forse non lo avrebbe portato fino in Sri Lanka, ma che
importava? Tutti abbiamo bisogno di parole, di condividere quel poco e insieme
tanto che siamo.
Un passo felpato sulla finestra, e il
miagolio del gatto, simile a uno stridere dell’archetto su corde di violino.
Sanira avrebbe voluto chiedergli tante
cose. Come faceva a sopravvivere in un mondo dove nessuno si prendeva cura di
lui? Forse una compagna lo aspettava lontano, una graziosa micetta, con gli
stessi occhi misteriosi di Manisha.
Il randagio balzò dentro, strusciò il
pelo contro la sua gamba e andò ad accoccolarsi sul letto. Non c’era bisogno di
parole. La luna piegò la sua falce a illuminarlo di riverberi argentei.
Sanira si stese accanto a lui, gli
carezzò il pelo arruffato, e lasciò la mente vagare oltre la finestra, su verso
il cielo sconfinato, dove tutto quel che accade quaggiù diventa piccolo come
una capocchia di spillo.
Raccontino ispirato al mio amico Sanira e letto a
Porta Vescovo (Verona) domenica 30 settembre in occasione della
manifestazione "Stranizza d'amuri", con il meraviglioso accompagnamento
musicale di Massimo Rubulotta.