giovedì 19 giugno 2014

"Panu", di Juhani Aho, ed. Vocifuoriscena

«Se in origine i nostri avi possedevano una migliore concezione di Dio e della sua  influenza sul mondo, progressivamente questa scienza si stemperò in un ammasso confuso di superstizioni che finì per dominare l’era del paganesimo.»  Elias Lönnrot

Il romanzo Panu (1897) costituisce un caso letterario affatto unico non solo nella parabola creativa di Juhani Aho, ma nell’intero panorama della letteratura nordica coeva: l’accostamento sinfonico tra romanzo storico (eminentemente sviluppato dal conterraneo Mika Waltari) e atmosfere del racconto gotico (Charles Robert Maturin) in una prospettiva espressiva che, spontaneamente, tocca gli scorci della prima letteratura fantasy (Robert Ervin Howard), particolarmente pronunciati e sorprendentemente «tolkieniani» nelle raffinate descrizioni di riti e superstizioni del paganesimo baltofinnico. 



Scrive Paolo Emilio Pavolini: «eccoci all’opera più vasta e complessa di Aho, il suo grande romanzo d’ispirazione kalevaliana. Erano gli anni in cui dal poema nazionale attingevano scene e motivi il sommo pittore Gallén-Kallela e il sommo musicista Jean Sibelius. Aho vi si preparò con un viaggio nella Carelia russa (estate del 1892), con lo studio delle opere del Lönnrot e di Julius Krohn, con indagini sulla tecnica del romanzo storico, fino ad allora nuovo, o quasi, nella letteratura finnica. 
Nello sfondo pittoresco del paesaggio nordico, tra le foreste nevose e i laghi gelati, fin nelle estreme lande della Lapponia, fra usanze strane e passioni violente, in contrasti di luce e di tenebre, si muovono, insieme con altre secondarie ma tutte potentemente scolpite, le figure di Martti Olai, il pastore di anime, l’apostolo del cristianesimo sorgente, e quella dello stregone Panu, il genio malefico che attraversa con tutti i mezzi e con tutti i delitti l’opera generosa del suo irresistibile rivale: la lotta fra la magia morente e la fede cristiana nascente.» Ed ancora Edoardo Roberto Gummerus: «Panu è una sorta di romanzo archeologico, etnologico ed etnografico, esaltazione del mito del Kalevala. Carico di dettagli, esprime anche una nuova valutazione dell’epopea nazionale, ben diversa da quella dei nazional-romantici di cinquant’anni prima. Anche per questa ragione l’opera ebbe entusiastiche accoglienze». 
Con l’esergo di Lönnrot, Aho apre il suo dramma escatologico, il crepuscolo di una civiltà che, già perduto da tempo il proprio carattere distintivo, l’esercizio lirico come equilibrio tra natura e potere della parola, si apprestava a ricevere il verbo nuovo, quello di Ristin Jeesus, «Gesù della Croce», accolto dal verace panteismo popolare in un sincretismo originale e variopinto, appena tollerato dalla chiesa di Roma e duramente represso all’avvento riforma protestante. 
Lo scetticismo di Aho soffonde d’umanità il carattere manicheo della battaglia all’ultimo sangue tra luce e tenebre: il verme della superstizione striscia fin nelle fondamenta della chiesa ma il pastore Martti Olai, sordo alle voci di quel popolo indocile, mal comprende le ansie della moglie e solo troppo tardi capirà che anche il chiaroscuro della foresta selvaggia, quel grigio-verde pallido e inquietante che ricorre nelle sinestesie del romanzo, è esso pure parte del disegno divino.
Ciò che più sorprende nel libro è la moderna densità antropologica della narrazione e l’attualità delle riflessioni su temi centrali della sensibilità umana: la virtù del rapporto tra civiltà e metafisica è il risultato dell’incontro non solo tra religioni e tradizioni ma tra razze e codici etnici diversi: la culla d’una civiltà multiculturale ante litteram ai confini più ignoti dell’Europa. L’ambita magia di Reita il vecchio è frutto della sua unione con una donna lappone, come i bei capelli scuri della figlia Annikki e l’amore di Kari verso la schiava  forestiera sono segnacoli di un’etica archetipica, una pietas ribelle tanto forte da frantumare il totem della cultura primitiva come il fragore del feticcio che il pastore scaglia contro l’albero sacro annullando il carisma dell’impostore per soppiantarlo con la grazia liberatrice. 

Marcello Ganassini