mercoledì 27 ottobre 2010

Operazione Romanzo (proviamoci, dài...)

Sì, avete capito bene! Proponiamo qui un ardito progetto, rivolto ai nostri lettori più giovani...
Scriviamo un romanzo!
Anzi, lo scriverete voi con la nostra attenta collaborazione.
A quattro, otto, sedici, cento mani.

D'accordo, elaborare un "romanzo di gruppo" in rete non è una proposta nuova. In questo caso, però, l'idea è finalizzata a una pubblicazione cartacea presso la Casa Editrice QuiEdit.
Inutile dire che detta pubblicazione avverrà solo se produrremo qualcosa di veramente valido!

Nei prossimi giorni, defineremo meglio le regole del gioco, intanto partiamo con la prima fase:

La proposta del soggetto!

Chiunque voglia concorrere all'Operazione, proponga (o sul blog, o su facebook) un soggetto per un romanzo che gli piacerebbe vedere pubblicato. Argomento, genere, personaggi, un eventuale titolo: ogni idea è ben accetta. Da quel punto in poi, il soggetto verrà definito e delineato in sede di discussione.
Noi ci limiteremo a svolgere il ruolo di mediatori tra tutti coloro che vorranno intervenire all'Operazione.

Forza! Date fondo alla vostra inventiva!



Post Scriptum
Onde evitare equivoci, non ci sono in palio compensi monetari. Non solo perché non potremmo, stanti le nostre scarse finanze, assolvere a un così impegnativo onere, ma soprattutto perché riteniamo che le cose più belle, nella vita, non si facciano mai per soldi.
Di solito, viceversa, le cose belle della vita costano poco oppure nulla, a livello di portafogli, e tanto a livello di impegno. Questo è uno di quei casi.

domenica 24 ottobre 2010

Su cosa vi siete fatti (ci siamo fatti) infinocchiare?

Rispondo, ben volentieri a tutta pagina, alle osservazioni di Anonimo, che ormai si è reso celebre per i pungenti e interessanti commenti su questo blog. Però, onde non sorgano confusioni e qualcun altro non si sogni di poter comunicare in questa sede con lo stesso nome, propongo che d'ora in avanti Anonimo si manifesti in veste di "Anonimo Ufficiale", pseudonimo che gli affibiamo d'ufficio, sempre fintanto che non voglia svelare la propria misteriosa identità.

Anonimo Ufficiale scrive:

"...da sempre per ogni generazione sono esistiti gli sfaticati, gli interessati, quelli a cui piace leggere e quelli a cui non piace, se mi porti una statistica attendibile che dimostri che in passato i giovani leggevano più dei giovani attuali, FORSE ci crederò...e anche se fosse vero quali sarebbero le cause? quale sarebbe il fattore o i fattori determinanti tale cambiamento? Io personalmente conosco troppe persone a cui piace leggere e che legge perciò non riesco a sostenere l'ipotesi che i giovani leggano poco... in ogni caso qualunque cambiamento non può essere causato da altro che da ciò che ci circonda, dalla società in particolare, dal momento che l'unica cosa che può essere cambiata in una cinquantina d'anni è l'ambiente di crescita e l'influenza che ha su di noi... prendi 10 persone e crescile 50 anni fa, prendi le stesse 10 persone e crescile adesso vuoi vedere che vengono su diversamente? autocommiseratevi per la società che state lasciando nelle nostre mani perchè di certo non è colpa nostra se è com'è, non ancora almeno...e probabilmente non migliorerà molto dato che per esempio non leggiamo cose "troppo lunghe" perchè non ci hanno abituati..."

Anonimo Ufficiale, che ovviamente non dichiara né la propria età né il proprio sesso, è di certo un/a teenager.
Arrabbiato/a?
Forse.
Di certo polemico/a con le generazioni che lo hanno preceduto.

Anonimo Ufficiale scrive che le generazioni passate hanno lasciato un mondo che fa schifo e che noi adulti dovremmo vergognarci.
Vero in modo disarmante.

Ricordo che, quando avevo io quindici anni, dicevo le stesse cose. Nutrivo un sentito odio nei confronti degli adulti in genere. Facevo ben volentieri di tutta l'erba un fascio, perché... accidenti, è la cosa più comoda del mondo accusare altri se il mondo va a catafascio!
Col tempo, ho capito che non c'entravano le persone particolari, non tutte, perlomeno. Ce ne erano molte che, come Don Chisciotte, si buttavano a capofitto contro i mulini a vento.

Quei mulini erano veri, eppure qualcuno voleva far credere che non esistessero affatto.

In epoca recente, quel qualcuno ha cercato (e ci è riuscito) di far credere che i mulini a vento contro cui si scontravano gli ultimi paladini di animo puro fossero delle grandissime fesserie. E, per far sì che non uscisse più nulla di simile alla grande protesta del 1968 o fenomeni incontrollati, come Woodstock, le manifestazioni femministe, gli appelli di Amnesty International, le occupazioni delle scuole e, in linea generale, un'opposizione critica, quel qualcuno si è inventato una figata su cui voi giovani, ma anche diversi adulti, sono andati ad appiccicarsi come il merlo sul ramo impiastricciato di vischio.

Avete capito di cosa sto parlando?
Se no, provate a chiedervi cosa vi ruba il tempo per leggere testi lunghi. Non è per colpa di qualcuno che non vi ha abituati a farlo, come sostiene Anonimo Ufficiale. Io ho sempre letto testi lunghi (o corti, ma tanti) a discapito di mia madre che protestava perché non uscivo mai! E ho continuato a farlo, grazie non al cielo, ma ad una passione che in me è riuscita a germogliare.
Ma era prima che qualcuno facesse il lavaggio del cervello a tutti...

P.S. Il fatto che siano altri ad orchestrare le nostre vite, non mi impedisce di vergognarmi per il mondo che lasciamo alle nuove generazioni.

mercoledì 20 ottobre 2010

L'"Orazio" di Heiner Müller portato in scena a San Pietro in Cariano (VR)

Titolo originale: Der Horatier.
Prima rappresentazione assoluta: Berlino, Schiller Theater, I° marzo 1973.



Domenica 17 ottobre, ho assistito al monologo L’Orazio testo scritto negli anni Settanta da Heiner Müller, uno dei massimi drammaturghi del Novecento, insieme a Brecht, Pirandello, Beckett e Ionesco.
L’Orazio risulta di un’attualità fin sconvolgente e, in attesa che Leonardo Franceschetti e Maurizio Zanolli replichino questo splendido monologo, mi sono sentita in dovere di scrivere un breve articolo di commento, nella speranza di invogliare quante più persone, specie i giovani, ad andarlo a vedere.
E perché non approfittare della disponibilità di questi eclettici artisti veronesi al fine di proporre il monologo nelle scuole superiori di Verona? Potrebbe essere un ottimo punto di partenza per una riflessione sul mondo in cui viviamo, di poco cambiato rispetto a quarant’anni fa, sotto il profilo della confusione etica.

L'ORAZIO

"Ogni volta che pronunciamo una parola,
inconsapevoli, creiamo un mondo."

Gilberto Fulgenzi
Cosmogonie indolenti, e altri fiatlux (1971)

Entrare, quasi al buio, in una soffitta e prendere posto su delle seggiole mentre lo spettacolo è già iniziato.
In sottofondo, Daniele Silvestri canta Il mio nemico.
Un uomo sta in ginocchio davanti a una ventina di quotidiani, tutti comprati il giorno stesso, e li scruta, uno ad uno, senza capire che contenuto stia dietro a tutte quelle parole messe insieme secondo un criterio sfuggente, volutamente incomprensibile.
È la storia di oggi. L’informazione frammentaria, depistante, centrifugata e passata al frullatore, senza più amore nell’utilizzo delle parole, abbandonata ai facili cliché, alla ricerca dello slogan.
Sedere sulle seggiole e guardare l’uomo che, disorientato, appende delle pagine, prese a caso dal mucchio, a un muro invisibile.
Le parole hanno perso il loro senso, non è più possibile decifrare quale sia il messaggio che stanno veicolando.
Le parole sono state uccise.
L’uomo prova una rabbia incontenibile e toglie dal muro tutte le informazioni finte, fuorvianti, che aveva raccolto con tanta pazienza.
Pazienza che ora gli sembra solo ingenuità.
E questo suo gesto apre uno squarcio nel passato.
Sulle seggiole non si è più tranquilli, perché qualcosa ha spezzato la barriera tra attore e pubblico, tra detto e non detto, ma anche tra presente e passato.
Ed è proprio in questo momento che il passato irrompe, riprendendo con la furia ironica di Heiner Müller la vicenda degli Orazi e dei Curiazi raccontata da Livio.
Non identica, anzi, ben diversa, con una serie di implicazioni impreviste, che colpiscono non già per le libertà prese rispetto al resoconto del celebre annalista, quanto per la marcata volontà di dire… altro.
L’Orazio è solo.
Non ci sono i due fratelli.
È l’unico a combattere per Roma.
Ed a lui è affidato tutto il dramma e pure il dilemma etico di cui neppure si accorge. Saranno gli altri a viverlo. Lui si muove secondo un cieco credere in una verità non discussa: Roma viene prima di tutto.
Io sono il signore tuo dio, tu non avrai altro dio al di sopra di me.
Orazio vede Roma né più né meno che così. Come un valore indotto a cui prestare fede, dedizione, se necessario anche la vita.
Essere seduti sulle seggiole e vedere un uomo che dipinge su dei pannelli la storia di Orazio, il suo ineludibile destino che lo costringe ad essere sia un eroe sia un assassino, ed ascoltare la stessa storia, ma recitata, raccontata a parole, porta a dover focalizzare il tutto con due sensi diversi, combinati in stereofonia.
Udito e percezione visiva si fondono, divengono una sola cosa.
Il cinema, soprattutto quando ricorre agli effetti speciali, non riesce a produrre uno sconvolgimento simile.
Ma l’Orazio proposto da Leonardo Franceschetti, Maurizio Zanolli e Alessandro Bonesini sì. Perché è capace di far emergere una consapevolezza che vive, vibra, si fa parola, musica, disegno, luce ed ombra.
Essere seduti su quelle seggiole vuol dire diventare parte di uno spettacolo che è vita vera, che travolge e incanta.
Orazio è l’eroe che decreta la sconfitta dei nemici di Roma, i Curiazi di Alba. Ma uno di loro, quello che lui stesso ha ucciso, era fidanzato con la sorella di Orazio. Ed egli, di ritorno vincitore, non sopporta le sue lacrime. Così le trafigge il petto con la stessa spada con cui aveva dato la morte al suo amato.

Adesso va da lui, che ami più di Roma. E questo accada a ogni donna romana che pianga il nemico.

Da qui il dilemma, reso sottilmente linguistico da Müller: Orazio è un eroe o un assassino?
Se è un eroe, dovremmo porgli l’alloro sul capo, se è un assassino, giustiziarlo. Ma Orazio può essere due uomini nello stesso tempo?
E qui scatta l’incapacità di cogliere le sfumature, di leggere bene e male come opposti che sempre sono compresenti. Il popolo vuole sapere se Orazio è un eroe o un assassino. Lo esige. Non accetta compromessi. I compromessi, come oggi sappiamo, sono i giochi di prestigio dei politici e dei giuristi, ma l’anima ingenua del popolo – nella sua pura ignoranza – non li può concepire.
Essere seduti su quelle seggiole vuol dire interrogarsi sui disegni di Maurizio Zanolli, che con sferzate di colore gioca a confondere il bene e il male. Vuol dire ascoltare le parole di Leonardo Franceschetti, che conferiscono forza e rendono più attuale che mai il messaggio espresso dal testo di Müller. Un testo mai censurato, sebbene scritto negli anni Settanta, in una Germania dell’Est che non conosceva, se non per intuito, il significato della parola «libertà». Vuol dire riflettere sulla presunta libertà che oggi ci illudiamo di vivere.

Sì, perché mentre si è seduti su quelle seggiole, coinvolti da una trama che inchioda e un impatto visivo che ti impedisce di distogliere anche per un solo istante l’attenzione, si avverte sorgere una domanda, a cui non si riesce a dare forma immediatamente.
Quella domanda ti si ripresenta forse dopo dieci minuti, un’ora dopo o nel giro di qualche giorno. E allora scopri che non era solo una domanda. Era un interrogarsi sul senso della vita in modo profondo, senza finzione, e proprio per questo ci ha messo tanto ad affiorare.
Oggi tutto spinge ad evitare il confronto con noi stessi. La filosofia ha smesso di essere un pungolo dell’animo nel momento in cui sono nati i quiz televisivi, che sostituiscono alla domanda di Müller – Orazio era un eroe o un assassino? – domande su chi ha vinto il Festival di San Remo nel ’79 o qual è il secondo nome di battesimo della Marini.
Se è questo, ormai, a fare la parte da leone rispetto ai dilemmi etici della vita, poi non stupiamoci, noi seduti su quelle seggiole, di sentire vacillare l’opinione pubblica nei processi di casa nostra.
In modo non dissimile dall’Orazio, lasciato in balia del giudizio popolare, la confusione regna sovrana.

È un assassino?
È un vincitore?
Ha fatto bene?
Ha sbagliato?
Risolvere i dilemmi etici, da che mondo è mondo, è ardua impresa. Non impossibile, a mio avviso.
Ci sono valori che, in qualche modo, sottendono il nostro modo di vivere e che si rendono riconoscibili come degni di essere salvaguardati, difesi, promossi, protetti.
Ma non sono valori assoluti.
I nostri valori dipendono dalle parole più di quanto ci sia dato sospettare.
Ripenso all’illuminante saggio di Aldo Giorgio Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, dove balza agli occhi una frase palpitante di verità: «Noi siamo il nostro linguaggio».
Tutta la nostra vita, tutte le nostre conoscenze, perfino i nostri valori, sarebbero impossibili senza il linguaggio, il quale diventa ad un tempo il limite della conoscenza e il mezzo, il solo mezzo, per attuarla. In altri termini, noi indossiamo una «pelle linguistica» dalla quale è pressoché impossibile uscire.
E i nostri valori ne fanno parte.
Questa consapevolezza dovrebbe portare ad una riflessione matura, che ci renda capaci di comprendere il gioco a cui siamo stati iscritti, forse nostro malgrado, e cogliere le sottili differenze che separano l’aspetto ludico da quello sensibilmente umano.
Immedesimarsi nel sentire altrui, comprendere che gli altri non sono solo figure, comparse di un video-game, ma esseri umani che come noi hanno paure, dubbi, momenti di rabbia e sconforto, potrebbe essere la più piena risposta al dilemma presentato da Müller: chi sei tu? Chi sei, persona che ho davanti?
Nel caso dell’Orazio il dilemma assume tinte tragiche: costui è un eroe o un assassino? E la risposta viene cercata in convinzioni sterili, suffragate dal nulla.

Ma è possibile trovare l’etichetta giusta per catalogare una persona?
Orazio può essere condannato o assolto a seconda dei valori dell’epoca in cui vive. Nell’antica Roma poteva essere un eroe e un fratricida. E lasciare il dilemma. Oggi, vai a sapere… Ma Müller insinua un’altra soluzione, sottile e di fine sarcasmo: l’eroe muore laddove il suo senso etico vacilla.
Nel momento in cui Orazio uccide la sorella, ha varcato la soglia tra il bene e il male, ha deposto ogni pretesa di essere un eroe.
Ma, diciamola tutta, Müller aveva dipinto la mancanza di senso etico di Orazio già prima. Quando, di fronte al nemico sconfitto, si rifiuta di accogliere la sua richiesta di pietà. Non gli importa né dell’uomo che uccide, né della sorella. Roma vince su tutto, dentro il suo cuore.
Il problema etico e quello linguistico sembrano essere diversi. Ma lo sono solo se non si affrontano d’ensemble, cogliendo le implicazioni dell’uno con l’altro. È con un uso volutamente distorto delle parole che ci viene fatto credere che il mondo sia in un certo modo, sempre se non siamo abbastanza scaltri da non cascarci.

Orazio è poco scaltro. Pensa con la spada, non con la mente. Ricorda uno dei nostri ragazzini, venuti su a battaglie combattute nelle play-station o nelle x-box, dove realtà e finzione si mescolano senza lasciare il respiro di una riflessione. E per questo il suo destino è scontato: verrà giudicato e ucciso due volte, sia da coloro che lo sostengono, sia da coloro che lo denigrano.
L’appello del padre, in lacrime, che vorrebbe prendere il suo posto, non servirà a nulla.
Come è giusto che sia.
Laddove l’etica è solo una parola spezzata, che ha perduto il suo significato, non si può pretendere che venga compresa.
E così nell’Orazio le parole, il solo grande tesoro di cui dovremmo tenere conto, vengono infangate, rese ambigue, spezzate, irrise, ed infine salvate.

Perché le parole devono rimanere pure.
Perché una spada può essere spezzata e anche un uomo può essere spezzato, ma le parole non possono essere spezzate nell’ingranaggio del mondo, essendo loro che rendono le cose conoscibili o inconoscibili.
Per noi uomini, l’inconoscibilità delle cose è mortale.

La nostra pelle linguistica è un limite, ma anche un immenso dono. Altrimenti come avrei potuto scrivere queste poche righe, nelle quali, spostandomi da un piano all’altro, tendo una mano a chi vuol capire?

Torno a sedermi sulla seggiola, chiedendomi se sia ancora possibile un’etica a misura d’uomo, un modo di affrontare la vita senza paraocchi e false distrazioni, con consapevolezza e rigore filosofico.
E rivedo Maurizio Zanolli e Leonardo Fanceschetti, che con amore e rabbia, raccontano il loro sentire lo stesso bisogno.
Con parole piene, capaci di trasmettere il vero, e pennellate incisive, che del vero si fanno tramite.

mercoledì 13 ottobre 2010

Com’era il signor Senzatempo da bambino?

Quella che segue potrebbe sembrare una fiaba, ma non lo è. No, no.
Al contrario, è una storia vera.
Anche un po’ triste, se vogliamo.
Ma non vale la pena anticipare altro.
Sappiate solo che fu proprio in seguito a queste vicende che Virgilio Senzatempo decise di specializzarsi in irrealtà.

La finestra dei sogni

C’era una volta un bambino che sognava ad occhi aperti.
Si chiamava Senzatempo e aveva un solo desiderio nel cuore: volare via da tutto, salire sopra le nubi e guardare il mondo come se fosse un puntino innocuo e lontano, come se fosse possibile stringerlo in una mano.
È bellissimo sognare, specie nei momenti più impensati, ma l’ideale è senza dubbio farlo sui banchi di scuola, mentre la maestra parla e parla per ore e ore. Quanta noia, a volte!
Il bambino per un po’ ascoltava, ma poi ecco un cavaliere con lancia e armatura muoversi con sguardo fiero verso l’antro di un drago. Quante fiamme uscivano dalla sua enorme bocca! Tuttavia l’impavido paladino non si faceva intimorire e incedeva con sguardo spavaldo verso la spaventosa bestia, deciso a domarla. Già le era giunto dinanzi e aveva impugnato la spada...
“Senzatempo!” lo risvegliò la maestra. “Potresti, per favore, scendere dal banco e smetterla di agitare il righello nell’aria?”
Il piccino scese subito, mentre tutti i compagni sghignazzavano.
“È proprio matto, non c’è che dire!” commentò Saputello, il secchione della classe. “Guarda un po’ che figura!”
“Secondo me, invece, è coraggioso” protestò sottovoce Mediocre. “Almeno lui fa quel che pensa!”
“Silenzio! Tutti a pagina cinquantasei del libro di grammatica” disse la maestra, interrompendo la conversazione dei due compagni di banco. “Adesso vi spiegherò il superlativo assoluto.”
Che incredibile suono le parole superlativo assoluto. Sembravano rievocare mitiche gesta di eroi... Ed ecco Ulisse, incatenato all’albero maestro e senza tappi nelle orecchie, mentre ascoltava il canto ammaliatore delle sirene. Poi una di quelle incantevoli creature si avvicinò alla nave, tentando di salire a bordo.
“Aiutami, Ulisse, voglio raggiungerti” sussurrò. “Saprò raccontarti fiabe bellissime, che neppure immagini! Storie meravigliose, che superano ogni tua fantasia...”
Ma ancora una volta la voce della maestra riportò Senzatempo nel crudo mondo della realtà. “Perché tieni le braccia dietro la schiena, come se fossero legate?” urlò al limite della sua umana pazienza, svegliandolo. “Hai copiato dalla lavagna la definizione di superlativo assoluto?”
Prima che Senzatempo riuscisse ad evitarlo, l’arcigna docente gli strappò di mano il quaderno e lesse a tutta la classe: “Definizione di superlativo assoluto: ciò che va oltre ogni immaginazione”.
I compagni scoppiarono a ridere e Senzatempo si sentì un idiota. Ma questa orribile sensazione durò poco. Come suonò la campanella, entrò in aula l’insegnante di matematica e cominciò a spiegare le frazioni. “La mamma prepara una torta e la divide in sette porzioni...” La maestra disegnò un cerchio sulla lavagna e lo suddivise in spicchi.
Ed ecco apparire un mondo fatto di particolari, di dettagli straordinari e incredibili fantasie. Tebe dalle sette porte di colpo le spalancò tutte e dietro ciascuna si celava un sogno diverso. Cammelli e tappeti volanti uscivano e rientravano, da magiche lampade sgusciavano geni, affascinanti odalische danzavano leggere, passando da una soglia all’altra.
“Che meraviglia!” pensò Senzatempo, quand’ecco apparire una bellissima fata, con gli occhi ricolmi di lacrime.
“Perché piangi?” le chiese il bambino. “Le fate dovrebbero essere felici.”
“Le mie lacrime sono per te, che patisci così tanto. Non c’è dolore più grande che soffrire per le sventure di una persona che ami.”
“Non devi compatirmi” rispose Senzatempo. Si portò dinanzi alla cattedra, vi salì sopra e declamò, infangando con le scarpe il registro: “Cambierò la mia vita, ci riuscirò! Io vivrò per sempre nel tempo del Sogno!”
La maestra lo strattonò giù in malo modo.
“Ma dico? Ti ha dato di volta il cervello? Questa volta hai superato ogni limite! Ma ci penserò io a farti passare la voglia di interrompere la lezione con le tue buffonate! Oggi, per te niente ricreazione. Resterai in aula, tutto solo, a riflettere!”
Come suonò la campanella, gli altri bambini uscirono di corsa, gridando allegramente.
“Sei ancora convinto che il tuo idolo sia coraggioso?” domandò polemicamente Saputello a Mediocre.
Il ragazzino non rispose. Triste ammetterlo, ma forse si era sbagliato...
Senzatempo si sedette al suo posto, chiedendosi come mai non ne combinasse una giusta. Udiva le festanti voci dei compagni, che correvano spensierati in giardino, e i suoi occhi si spostarono istintivamente a fissare la finestra. Com’era incantevole il volo degli uccelli, sembrava una danza! Oh, cosa avrebbe dato per essere uno di loro e volare nel cielo senza nessun limite, oltre ogni confine!
Senza pensarci troppo, Senzatempo si alzò, prese i colori a tempera e disegnò sulle finestre il volo degli uccelli. Ma, mentre dipingeva, si accorse delle farfalle, dei fiori e degli alberi e così cercò di ritrarre anche la loro meravigliosa leggerezza: quanti colori, che incredibile varietà di forme!
Alla fine la finestra era un immenso affresco di tinte, dove arcobaleni, laghetti, insetti e piante giocavano, cambiando luce sotto i raggi del sole.
“Senzatempo, Senzatempo...” sentì sussurrare il bambino.
Si voltò, con gli occhi bassi, rendendosi conto solo allora di cosa aveva combinato. Ecco, adesso la maestra lo avrebbe sgridato, i compagni si sarebbero presi gioco della sua goffaggine... Che sensazione insopportabile! Silenzio, invece. Nessuno fiatava. Cosa stava succedendo? Prese coraggio e guardò: la maestra, i compagni e perfino le mosche erano a bocca aperta, ad ammirare l’incredibile gioco di colori e luci del suo disegno sulla finestra.
A Senzatempo parve che quel momento non finisse mai.
“Mi dispiace...” disse, per scusarsi. “Posso cancellare...”
Nessuno gli rispose. Come se le sue parole fossero state un sussurro impercettibile.
Poi Mediocre, senza parlare, prese dal suo banco il pennello e cominciò a disegnare il mare su un’altra finestra. E dopo di lui tutti i bambini seguirono il suo esempio, dipingendo su vetri dell’aula i meravigliosi universi che vivevano nei loro cuori: maghi dalle lunghe barbe bianche, principesse sontuosamente abbigliate, bizzarri animali, alberi con occhi e braccia, stelle sorridenti... L’atmosfera fiabesca che si respirava nell’aula ebbe il potere di trasformare la maestra in un’incantevole fata dagli occhi colmi di dolcezza. Levò la sua bacchetta magica e tramutò tutte le pareti in grandi finestre. Era incredibile: non c’erano più confini, nessun ostacolo impediva più di ammirare il mondo là fuori, che ormai era unicamente fantasia e libertà.
Come videro questo prodigio i bambini iniziarono a cantare felici e, per giorni e giorni, continuarono a mescolare musica e tempere, riempiendo le finestre con i colori dei loro inesauribili sogni.


Il resto, almeno in parte, potete intuirlo.
Ciò che ancora non sapete è come sia riuscito il nostro Virgilio Senzatempo ad aprire un'agenzia che propone davvero viaggi nell'irrealtà!
Ma questo verrà spiegato in uno dei prossimi libri della serie.
Pazientate, pazientate...

martedì 12 ottobre 2010

"A casa del diavolo" - Racconto di Oliviero Canetti

È con piacere e orgoglio che pubblichiamo un racconto inviatoci dal nostro collaboratore, l'ottimo professore Oliviero Canetti, a cui vanno tutti i nostri più diabolici complimenti.


Ed eccoci qui, tutti insieme e zitti, a casa del diavolo.

Di giorno bisogna stare attenti, perché di giorno il diavolo è sveglio. Lo sentiamo girare per le stanze, con quel suo passo lento e cadenzato, l'incedere del diavolo. Lo sentiamo sgranocchiare in cucina il suo magro pasto, ossicini di bambini e patate al forno, la cena del diavolo. O in biblioteca, alla luce dei santelmi, stropicciare carte antiche e polverose, le pergamene del diavolo.

Non si può far rumore, in queste lunghe ore. È cattivo, il diavolo, sapete, e se ci piglia ci mette nel forno. E noi stiamo lì, rincantucciati tra le gambe dei mobili, sotto gli armadi e sotto i letti, a spiare, tutti insieme e zitti, i piedi del diavolo. Zoccoli caprini in vecchie pantofole di feltro, i piedi del diavolo, che van su e giù per le vaste stanze, sul marmo e sui tappeti, su e giù nel lento volgere del giorno. In silenzio, udiamo l'ansito ruvido del suo respiro, il respiro del diavolo, che sa un po' di zolfo.
Lento cala il tramonto sulla casa del diavolo, e non si può far nulla. Solo starcene tutti insieme e zitti, in timoroso e reverenziale silenzio. Ma ci riscuotono nell'imbrunire i suoi sbadigli, gli sbadigli del diavolo, prolungati e intenti. Allora ci diamo l'un l'altro di gomito. Ecco, ci siamo. E quando il diavolo va al letto e la notte scende sulla sua grande casa, è il nostro momento.
Ed eccoci venir fuori dai pertugi tra le gambe dei mobili, da sotto gli armadi e sotto i letti, ed eccoci camminare in fila indiana e quatti, lungo le pareti, per incontrarci infine, tutti insieme e zitti, nel salone del diavolo. Su una parete è appeso il ritratto del diavolo, incorniciato d'argento, e dal ritratto, il diavolo ti scruta accigliato. Sguardo di diavolo hanno gli occhi del diavolo. Ma per il resto c'è un silenzio tranquillo e profondo. Adesso il diavolo dorme e, quando il diavolo dorme, noi possiamo girare e giocare per la sua grande casa.
Tutti insieme e zitti, a casa del diavolo.
Ci guardiamo l'un l'altro e ci scambiamo risatine furtive. Questa è la casa del diavolo: ne conosciamo ogni angolo, ogni cantuccio, ogni nascondiglio. Sono solo poche stanze, poche vaste ombrose silenziose stanze. Quante ne bastano al diavolo, che è un tipo di poche pretese, ma noi le esploriamo ogni volta con un misto di timore e meraviglia.
Per prima cosa avanziamo lungo il corridoio e ci affacciamo cauti in camera, la camera del diavolo. La camera è buia e nel buio il diavolo dorme. Profondo è il sonno del diavolo e sogna sogni di diavolo. Un russare lento e profondo, il russare del diavolo. Finché si ode il diavolo russare vuol dire che il diavolo dorme. E finché il diavolo dorme noi siamo al sicuro.
Zitti zitti ce ne andiamo in cucina. Ed eccoci nella cucina del diavolo. In alto ci sono le credenze, le credenze del diavolo, ed è lì che il diavolo tiene la farina, la farina del diavolo, che va tutta in crusca. Il fuoco è acceso e sul fuoco la pentola bolle, la pentola del diavolo. La fissiamo da lontano, affacciati alla porta, timorosi di avvicinarci. Nera e maligna è la pentola del diavolo. Non c'è il coperchio e gorgoglia con minacciosa indolenza. Domani la rubiamo, diciamo ogni volta, ma poi ci manca il coraggio. C'è qualcosa di sinistro nella pentola del diavolo. Cuoce il pasto del diavolo.
E ora andiamo a vedere il gatto del diavolo. Ha il pelo rosso come la ruggine, il gatto del diavolo, e dorme acciambellato nel cesto. Zitti zitti facciamo per avvicinarci, ma il gatto del diavolo apre un occhio e tira fuori le unghiette. Non vuole coccole, lui, non vuole carezze: è il gatto del diavolo. Ci spia dal cesto con infida malevolenza. Noi ce ne andiamo e il gatto del diavolo richiude il suo occhio e si rimette a ronfare.

Per un po' non sappiamo cosa fare, poi decidiamo di andare a rovistare nell'armadio del diavolo. Pesante e di mogano è l'armadio del diavolo. Ne apriamo le ante con cautela, perché cigolano e scricchiolano. Abbiamo sempre paura che il diavolo si svegli e, se si sveglia, il diavolo ci acchiappa e ci mette nel forno. Ma il russare del diavolo riempie la casa e finché si ode il diavolo russare vuol dire che noi possiamo stare tranquilli.
Nell'armadio del diavolo ci sono i suoi vestiti: la camicia, i pantaloni, il gilet, il soprabito, le scarpe, le ghette, la bombetta, tutti i vestiti del diavolo. Li tiriamo giù dalle stampelle, li indossiamo e sfiliamo per il corridoio imitando le mosse e le smorfie del diavolo, ci guardiamo l'un l'altro e ridiamo strizzando le guance. È così buffo, il diavolo! Ma si sente elegante e raffinato, il diavolo, e cammina tutto impettito, con fare lugubre e diavolesco. Ecco questi sono i suoi vestiti, i vestiti del diavolo, e questo è il suo stile, lo stile del diavolo.
Nell'ultimo ripiano dell'armadio c'è una scatola di cartone. Dentro che cosa ci sarà? La scatola è in alto e per un po' rimaniamo lì sotto incerti, incerti se aprirla e spiare i segreti del diavolo, o lasciare al diavolo i suoi segreti. Presa la nostra decisione, andiamo a cercare una sedia. Infine prendiamo lo scranno del diavolo, lo scranno che si trova nel grande salone del diavolo, proprio sotto il ritratto del diavolo, il maestoso scranno su cui, nei lunghi pomeriggi invernali, il diavolo intreccia le sue oscure e profonde meditazioni, le meditazioni del diavolo, il pugno sotto il mento e i piedi allungati verso il camino. È di legno pesante, lo scranno del diavolo, con lo schienale imbottito e i piedi lavorati. Faticosamente lo trasportiamo sotto l'armadio e arrampicandoci sull'alta spalliera arriviamo finalmente alla scatola.

In un attimo la scatola è a terra e noi siamo tutti intorno, impazienti di aprirla, di vedere che cosa c'è dentro! Su cosa aspettiamo? La apriamo.
Vecchie fotografie tenute con grossi elastici, istantanee ingiallite e ritratti sfocati. Le fotografie del diavolo, i ricordi del diavolo, le nostalgie del diavolo. Ecco, questo è il diavolo con i colleghi in ufficio. E qui il diavolo durante la settimana bianca, con il passamontagna e gli sci in spalla. Questi sono i nonni del diavolo, questi sono i fratelli e questi saranno forse dei parenti lontani. E questo è il diavolo al primo giorno di scuola: rosso è il grembiulino del diavolo, rosso il fiocco del diavolo. E guardate qui, che buffo, questo è il diavolo quand'era un bebè. Sta bocconi sul cuscino, un sorrisetto sdentato, col culetto in aria e la codina dritta!

Ci fanno ridere, le fotografie del diavolo, e anche un po' ci inteneriscono. Le rimettiamo a posto. La prudenza non è mai troppa a casa del diavolo.

E poi andiamo in biblioteca. È antiquata e austera, la biblioteca del diavolo. Ragnatele e silenzio. Antichi e polverosi sono i libri del diavolo e raccontano cose di diavoli. Talvolta li tiriamo giù e li sfogliamo. Ci sono tante parole misteriose, nei libri del diavolo, pentacoli e formule magiche, e le pagine scricchiolano quando le voltiamo. Stiamo lì per ore e fingiamo di leggerli, i libri del diavolo, e mentre fingiamo di leggerli, imitiamo il diavolo che strabuzza gli occhi, vergando annotazioni sui bordi delle pagine, nella sua grafia minuta e angolosa. Una volta per scherzo glieli abbiamo scarabocchiati, poi il diavolo si è arrabbiato e si è messo a gridare con voce di diavolo, e ha detto che se ci prende ci mette nel forno.
In fondo alla biblioteca, su un supporto, sta un bellissimo violino. È il violino del diavolo. La luce scivola sulla cassa di legno in mille riflessi. È strana e misteriosa, la musica del diavolo, e quando il diavolo suona e l'archetto corre sulle corde, tutta la casa si riempie di note trillanti, gli scheletri ballano e noi facciamo capolino dai nascondigli e battiamo il tempo con le mani. Ci piace, la musica del diavolo. Il suo violino lo ammiriamo da lontano e non osiamo toccarlo. È sacro il violino del diavolo, perché suona la musica del diavolo.

Sul tavolino c'è una brocca di cristallo. I cioccolatini del diavolo. Sono al latte, al cacao, alla nocciola, alla vaniglia. Su, serviamoci! Saltiamo sul tavolino e diamo inizio alla scorpacciata. Ci sporchiamo di cioccolato e avidamente ci lecchiamo le dita, prima di pulirle sdegnosi sulla tovaglia in tela d'Olanda. Mentre scherziamo e ridiamo, e ridiamo e ci spintoniamo scherzando, qualcuno urta la brocca di cristallo, la brocca di cristallo del diavolo. La brocca rotola sul tavolino, rotola e rotola, e noi non riusciamo ad acchiapparla, non riusciamo ad acchiapparla e la brocca di cristallo rotola e rotola, e cade in terra. Uno schianto.
Ci blocchiamo.

Un istante.
Un solo... lunghissimo... istante.
Un ululato si accende attraverso le stanze.
...L'ululato del diavolo!
Noi ci guardiamo l'un l'altro e cominciamo a tremare.
Passi nel corridoio.
...I passi del diavolo!
La porta si spalanca.

È il diavolo!

Rosso è il pigiama del diavolo, rossa la vestaglia del diavolo, rosse le calze del diavolo.
Il diavolo si erge su di noi, spalanca le ali, le corna si rizzano sprizzando scintille.
Adesso vi piglio e vi metto nel fornoooooo...

Cerca di agguantarci, il diavolo. Ma noi siamo più piccoli e più svelti. Scappiamo intorno al tavolo, imbocchiamo la porta e via per le stanze! Il diavolo ci insegue, furioso. Ci sparpagliamo nei corridoi, nei saloni e nelle camere. Il diavolo si protende cercando di agguantarci. Sono lunghe le braccia del diavolo, scheletriche le dita del diavolo, nere le unghie del diavolo. Noi gli sgusciamo tra le grinfie ed uno ad uno ci tuffiamo tra le gambe dei mobili, sotto gli armadi e sotto i letti. Allora il diavolo dà di piglio alla scopa e comincia a sbatterla tra le gambe dei mobili, sotto gli armadi e sotto i letti.

Tenta di stanarci, ma noi ci rincantucciamo più in fondo che possiamo. È casa nostra, qui sotto, qui sotto siamo al sicuro. Tra le gambe dei mobili, sotto gli armadi e sotto i letti. Urla e minaccia, il diavolo, lancia maledizioni, il diavolo, ma non può farci nulla. E se ne va via furioso e scornato.
Noi rimaniamo rintanati, immobili e zitti, senza muoverci e senza fiatare. Cerchiamo persino di non respirare... Ma usciremo di nuovo. Forse domani sera, forse la sera dopo. Usciremo dai pertugi tra le gambe dei mobili, da sotto gli armadi e da sotto i letti, e quindi ricominceremo a girare e giocare per questa grande casa, per la casa del diavolo.
La prossima volta, ci diciamo dandoci di gomito, gli tireremo un bello scherzetto, al diavolo. Gli ruberemo la pentola.

Sì, la pentola del diavolo!
Oliviero Canetti

venerdì 8 ottobre 2010

Progetto Senzatempo. Un nuovo approccio alla lettura, alla scrittura e al ragionare, secondo logica e giudizio critico

Come annunciato poco tempo fa, è uscito il secondo volume della serie Senzatempo, dedicato ai lettori più giovani e a chiunque sia desideroso di approfondire il mondo inventato da James Matthew Barrie.
Sì, perché i libri della serie parallela a quella mitologica costituiscono dei veri e propri viaggi dentro i più grandi classici per l’infanzia.
Ora, voi direte: perché scrivere un libro che parla di un altro libro? Nel caso, non era meglio utilizzare la formula del saggio, anziché del romanzo?
La risposta è abbastanza banale: i saggi, molto spesso, non sono apprezzati dai bambini delle elementari e delle scuole medie che, specie in quest’epoca, prediligono trascorrere il loro tempo dinanzi alla tv o all’x-box, piuttosto che a leggere.
Pertanto, abbiamo pensato di attirarli con un approccio divertente, ma non per questo povero di contenuti. Nelle indagini irreali della Senzatempo, i giovani lettori vengono trasportati nell’epoca in cui i romanzi sono stati scritti. In Alla scoperta del Paese delle Meraviglie conoscono di persona Lewis Carrol, scoprendo dettagli sulla sua personalità e sulla sua vita (la balbuzie, la passione per la fotografia, la predisposizione per la logica e la matematica, il suo amore per il mondo dell’infanzia). In Alla scoperta dell’Isola-che-non-c’è incontrano James Matthew Barrie, accanito fumatore di pipa, e i bambini a cui si è ispirato per scrivere Peter Pan. In entrambi i casi, c’è un mistero da risolvere: nel primo, Alice Liddell, la bambina a cui Carroll aveva dedicato il suo capolavoro, è scomparsa e spetterà a Virgilio Senzatempo ritrovarla. Nel secondo, Wendy si ribella alla trama e, ancora una volta, saranno i protagonisti della Senzatempo a sbrogliare la matassa.
Nel corso di entrambi i viaggi, Alice nel Paese delle Meraviglie e Peter Pan vengono esplorati dall’interno, interagendo con i personaggi creati dai due scrittori inglesi e scoprendo le molteplici sfaccettature delle trame.
Si tratta di libri appassionanti, di semplice lettura, indicati particolarmente per i ragazzini delle scuole medie.


Ma non è finita qui!

I libri, infatti, si prestano anche ad interessanti attività didattiche, volte ad incentivare la lettura critica e la scrittura creativa. A tale scopo, abbiamo predisposto una guida insegnanti e delle schede per gli alunni atte a svolgere il lavoro in classe, come attività laboratoriale integrativa alle materie insegnate.
Va evidenziato che ogni volume presenta non solo più tematiche, ma anche diverse chiavi di lettura, divenendo così fruibile sia ad un livello elementare, sia nell’ottica di approfondimenti interdisciplinari.
I docenti interessati possono richiedere in visione il progetto Senzatempo, direttamente su questo blog, lasciando una mail dove inviarlo.

E, naturalmente, saremo felici di rispondere ad ogni domanda!

martedì 5 ottobre 2010

L'Irlanda celtica in "premio" al quiz fantasy di Celtic World

Proprio così! Il volume Agenzia Senzatempo - Viaggio irreale nell'irlanda celtica verrà assegnato in premio ai tre abili solutori del quiz che si terrà nei prossimi giorni sul sito di Celtic World. http://www.celticworld.it/
Una ghiotta occasione per dare sfoggio di cultura e assicurarvi un libro che potrete regalare a un amico o a un parente in occasione del compleanno, di Natale o di Halloween (l'antico capodanno celtico). Se, poi - ma non ci crediamo - voi stessi ancora non lo avete letto... ecco il momento giusto per immergervi nel romanzo fantasy che ha rivoluzionato la fantasy, senza troppo sforzo e senza mettere mano al portafogli.
La partecipazione al quiz richiede unicamente l'iscrizione al sito di Celtic World, cosa semplicissima anche per i dinosauri del web.
Sì, lo so, qualcuno di voi alzerà gli occhi al cielo. "Non bastavano le lotterie, i quiz televisivi, i gratta e vinci, i gratta e parcheggia a demolire l'amore per la cultura ed il sapere?"
Condivido il parere di voi polemici, ma prendetela con spirito. Se non altro, per una volta, in palio non ci sono soldi, ma proprio... cultura! Magari potrebbe essere il "la" per cambiare il modo di intendere il quiz, che, nella sua intrinseca natura, è tutt'altro che stupido o avvilente. Non dimentichiamo che il gioco, nell'antichità, era una questione molto seria, spesso interrelata ai culti. Quindi, rimuovete dall'inconscio "Chi vuol essere milionario?" e mettete alla prova le vostre conoscenze del mondo celtico!
E, nel caso riusciste a vincere, non dimenticatevi di contattarci sul blog per esprimere un parere sul libro!!!