lunedì 23 agosto 2010

Nonsolospade al festival celtico di Nubilaria




Grazie all'amico Carlo Recalcati (in arte "Kal"), fondatore dell'Associazione Culturale Bibrax, per la divulgazione e la diffusione della cultura celtica, Dario ed io presenzieremo al Nubilaria Celtic Festival 2010, lo straordinario raduno celtico di Novellara (dalle parti di Modena e Reggio Emila, ma lo si trova facilmente: basta vedere dove si fa più casino nella zona). Il ricco e variegato programma lo trovate qui.

Il nostro appuntamento è previsto per le 17.00 di sabato 4 settembre. Il titolo è: "L'epica gallica e il ciclo arturiano", e non abbiamo idea di cosa diremo. Improvviseremo, come sempre. Ma i temi portanti saranno - va da sé - i primi due libri scritti per la serie mitologica dell'Agenzia Senzatempo. Viaggio irreale nell'Irlanda celtica e Viaggio irreale nella Britannia di Merlino e Artù.
Ora, suppongo che tutti e voi nostri 16 lettori abbiate di meglio da fare che venire a Novellara, nella sconfinata ed insidiosa Emilia, per ascoltare cose che già avete trovato nei nostri libri. Sempreché li abbiate letti (cosa non facile vista la distribuzione non proprio capillare...). Magari, però, stante che noi non siamo i migliori promotori di noi stessi, potreste darci una mano divulgando la notizia.
O no?
Cerco di convincervi con un escamotage (da poco, come capirete).

Ecco un'anteprima tratta dal libro: Agenzia Senzatempo - Viaggio irreale nella Britannia di Merlino e Artù.

La nascita di Arthur

Alla morte di Emrys Wledig, suo fratello Uthyr salì al trono e subito fece chiamare Myrddin affinché gli rivelasse il futuro.
“Ricordi la cometa che apparve in cielo alla morte di tuo fratello?” esordì l’incantatore. “Eri tu, invero, il drago di fuoco che l’astro ci ha mostrato e, proprio in virtù di quel prodigio, sei divenuto re di Prydein. Il raggio che usciva dalla sua bocca preannunciava che avrai un figlio potentissimo, il cui dominio si estenderà su tutto il continente.”
Pensieroso e turbato, Uthyr ordinò che venissero forgiati due draghi d’oro simili a quello mostrato dalla stella. Uno lo destinò alla cattedrale di Caer Wynt, l’altro lo tenne per sé, affinché lo accompagnasse in battaglia. Per questo motivo, da quel giorno egli venne chiamato Uthyr Penndragwn, il Capo dei Draghi.
Ma era destino che la pace tanto faticosamente conquistata non dovesse durare a lungo. Il figlio di Hengist, Octa, che re Emrys Wledig aveva magnanimamente risparmiato anni prima, tornò ad insidiare Prydein. I Sassoni si sollevarono nelle province settentrionali dell’isola e occuparono tutte le roccaforti da Alba a Caer Efrawg. Nemmeno l’intervento di Uthyr riuscì a placare la loro furia, e i Britanni furono costretti ad indietreggiare fino alle dirupate pendici del Mynydd Daned, ove si asserragliarono.
Durante la notte, il re domandò ai suoi uomini quale fosse, a loro parere, il modo migliore per sferrare un attacco ai nemici. Gwrleis ap Sardawg, wledig del Cornyw, prese la parola. “I pagani sono più numerosi di noi. Se aspettassimo l’alba, andremmo di certo incontro a una sconfitta. Mentre, se approfitteremo del buio, li coglieremo di sorpresa e avremo maggiori probabilità di riuscire a sopraffarli.”
Il saggio parere di Gwrleis venne ben accolto e, armati di tutto punto, Uthyr e i suoi guerrieri si mossero verso l’accampamento di Octa. Piombarono compatti in mezzo alle schiere nemiche, con le spade sguainate. Presi alla sprovvista, i Sassoni non riuscirono ad organizzare prontamente la difesa e vennero sbaragliati.
Dopo la vittoria, Uthyr si recò a Llundein e ordinò che i prigionieri, tra cui Octa, fossero rinchiusi nelle prigioni della città.
Poiché la Pasqua era imminente, il re dispose che venisse organizzata una cerimonia solenne, a cui invitò tutti i nobili britanni. Tra gli ospiti erano presenti anche Gwrleis e sua moglie Eigyr, figlia di Amlawdd Wledig, una delle dame più belle di Ynys Prydein.
Come Uthyr la vide, se ne innamorò e, da quel momento, non ebbe attenzioni che per lei. Si premurava che non le mancassero vassoi colmi delle migliori pietanze e coppe d’oro piene di vino. Ma soprattutto le sorrideva, la dardeggiava con lo sguardo e scherzava con lei, incurante degli altri ospiti e di suo marito.
Gwrleis fu talmente infastidito dall’esplicito corteggiamento che il re faceva alla sua sposa, che si alzò da tavola e abbandonò platealmente la sala, senza salutare il sovrano.
Sconcertato, Uthyr mandò dodici uomini a richiamarlo. “Esigo che Gwrleis torni indietro a scusarsi. Se non obbedirà, lo priverò delle sue terre e del suo rango.”
Ma Gwrleis non volle saperne. “No! Ho subito io l’oltraggio più grave! Per Dio che ha creato la luce, non tornerò indietro, né chiederò perdono. Dite a re Uthyr che, se vuole parlarmi, mi troverà nella mia fortezza di Dinblod. Venga, e io gli darò l’accoglienza che merita!”
Irritato da questa riposta, Uthyr radunò l’esercito ed entrò in Cornyw.
Non disponendo di mezzi adeguati a contrastare l’attacco, Gwrleis si appellò a chiunque volesse aiutarlo a difendere i suoi diritti contro il re. E, poiché reputava fosse troppo pericoloso per Eigyr rimanere al suo fianco, la mise al sicuro nella fortezza di Tintagel, con un gran numero di guerrieri a difenderla. La donna restò sola tra quelle possenti mura, in pena per il marito e triste per i molti uomini che avrebbero trovato la morte a causa di quella sciocca contesa.
Gwrleis si ritirò a Dinblod, dove venne presto raggiunto dalle truppe di Uthyr. Per sette giorni il re assediò la fortezza, ma senza successo. Non faceva che pensare a Eigyr.
Chiamò il suo amico Ulffin, signore di Caer Sallawg, e così si confidò: “Aiutami, ti prego! La passione per Eigyr mi sta divorando a tal punto che, se non soddisferò il mio desiderio, morirò!”

“È davvero difficile consigliarti, sire. La fortezza di Tintagel, dove Gwrleis ha portato la sua sposa, si trova su una scogliera circondata dal mare e l’unico ingresso si apre su una stretta lingua di roccia. Se anche tu cercassi di espugnarla con tutte le truppe di Prydein, basterebbero tre uomini a difenderla.” Poi il volto di Ulffin si illuminò. “Tuttavia, potresti chiedere il parere di Myrddin, l’incantatore. Solo lui è in grado di aiutarti.”
Così venne convocato Myrddin. Egli già conosceva il motivo per cui Uthyr pretendeva il suo aiuto e, dentro di sé, disapprovava che avesse mandato a morire tanti uomini per soddisfare la propria lussuria.
Ma al tempo stesso, poiché i mille fili del destino non gli erano ignoti, sapeva che era necessario proseguire fino in fondo…
“Eigyr è la più fedele delle donne, e se anche tu conquistassi Tintagel, non avresti mai il suo amore” rispose l’incantatore, dopo aver ascoltato la richiesta del re. “Tuttavia potrei aiutarti ad avvicinarla con uno stratagemma. Opererò un incantesimo, in modo che tu assuma l’aspetto di Gwrleis. Poi renderò Ulffin identico al suo paggio Medaf, mentre io mi trasformerò in Brythael, suo siniscalco. Così camuffati, non avremo problemi ad entrare nella fortezza e tu potrai incontrare Eigyr. Tuttavia…”
“Sì?” domandò Uthyr.
“Mi accorderai qualunque cosa io ti chiederò, dopo che avrai soddisfatto il tuo desiderio” aggiunse Myrddin.
Il re non badò a tale richiesta, tutto preso dal pensiero che si sarebbe presto intrattenuto con Eigyr. E a sera, non appena si levò la nebbia, si incontrò con Myrddin e Ulffin.
L’incantatore sollevò la sua verga e tutti e tre mutarono fisionomia.
Poco dopo i loro destrieri galoppavano lungo la frastagliata scogliera. Giunti alle porte di Tintagel, i guardiani riconobbero Gwrleis e non esitarono ad alzare la sbarra.
Uthyr non ci pensò due volte: smontò da cavallo e raggiunse le stanze di Eigyr.
“Come mai sei qui, marito mio?” domandò la donna, meravigliata.
“Ho abbandonato la battaglia perché desideravo trascorrere la notte con te, la più cara tra le donne” rispose Uthyr, con la voce di Gwrleis. E in questa risposta, almeno, era sincero.
Mentre il re dava sfogo alla propria passione, le sue truppe, lasciate ad assediare la roccaforte di Dinblod, ne abbatterono le mura e nello scontro il vero Gwrleis cadde ucciso.
Albeggiava quando i soldati cornici giunsero a Tintagel, recando a Eigyr la notizia che il suo sposo era morto. Uthyr, che indugiava ancora tra le coltri in svaghi amorosi, si precipitò fuori dalla camera.
Figuratevi lo stupore dei soldati quando videro il loro signore, vivo e vegeto!
Una volta che costoro ebbero spiegato il motivo del loro sconcerto, Uthyr scoppiò a ridere. “Vi siete ingannati. Come vedete, non sono affatto morto! Mi rammarico, però, che la mia fortezza sia stata distrutta e i miei uomini uccisi. Ora c’è il rischio che il re di Prydein si diriga qui, pertanto credo sia più prudente andargli incontro e cercare di stringere un accordo con lui.”
Eigyr lasciò partire colui che credeva il suo sposo senza alcun sospetto. E quando, più tardi, i soldati condussero a Tintagel il corpo senza vita di Gwrleis, ella cadde in un pianto straziante.
Nel frattempo, Uthyr e i suoi compagni avevano cavalcato fino alle sponde di un ruscello. Myrddin lavò i loro volti, affinché riacquistassero le sembianze originali, quindi il re tornò al suo campo, dove i soldati lo informarono della morte di Gwrleis.
Ora che la passione era scemata, Uthyr si rese conto di non aver odiato il signore del Cornyw fino al punto da desiderarne la morte e, addolorato, si riunì con Ulffin e Myrddin per decidere il da farsi.
“Sire, poiché non puoi mutare il passato, dovrai offrire un risarcimento alla giovane vedova” disse Myrddin. “Prendila in moglie e abbi cura di lei. Ma non rivelarle mai cos’è accaduto questa notte.”
“Lo farò di buon grado” promise Uthyr.
“Ricorda inoltre che hai giurato di esaudire qualunque desiderio io ti avrei esposto” aggiunse l’incantatore.
“È vero” concesse il re.
“Ebbene, dovrai consegnarmi il bambino che è stato concepito questa notte.” Myrddin lo fissò, irremovibile. “E non dovrai rivelare a nessuno che si tratta di tuo figlio.”
Uthyr inspirò profondamente, colpito dalla richiesta. D’altronde aveva già un figlio, un giovane valoroso di nome Madawg, e la successione era assicurata. Che cosa gli importava di un bimbo di Eigyr, sul quale non avrebbe mai potuto dimostrare la paternità?
“E ora addio, sire” concluse Myrddin. “Non mi vedrai più prima che nasca tuo figlio.”

Priva di protezione dopo la morte del marito, Eigyr accettò di sposare Uthyr Penndragwn. Il matrimonio venne celebrato con un banchetto, e il re si riconciliò con i congiunti e gli alleati di Gwrleis. Poiché Uthyr non le rivelò mai quanto era avvenuto, la povera Eigyr si tormentava domandandosi chi fosse l’uomo che, con le sembianze del suo sposo, le aveva fatto visita in quella notte fatale. Ella, infatti, aveva scoperto di essere incinta ma era incapace di dire chi fosse il padre del nascituro, e la cosa la riempiva di vergogna.
“C’è solo una soluzione” disse Uthyr, conscio della terribile promessa fatto a Myrddin. “Partorirai in segreto, e il piccolo verrà cresciuto lontano da qui.”
Quando si compirono i giorni, Eigyr diede alla luce un maschio. Ligio alle istruzioni di Myrddin, Uthyr prese il neonato, lo avvolse in un panno e lo consegnò alla levatrice. “Va’ alle porte della fortezza, e affida questo bambino all’uomo che troverai ad aspettare.”
Senza comprendere la ragione di quell’ordine, la donna uscì dalla fortezza e vide nella penombra un vecchio mendicante. Senza una parola, l’uomo si impossessò del fagottello e scomparve nella nebbia.

E, se non basta a convincere gli appassionati, vorrà dire che ci dedicheremo alle barzellette.
Detto tra noi, ci stiamo già dedicando alle barzellette.
Ma questa è un'altra storia, della quale è meglio non sapere...

martedì 3 agosto 2010

Viaggio irreale nella Scandinavia vichinga - Incontro con la völva

Il terzo libro della serie Agenzia Senzatempo, Viaggio irreale nella Scandinavia vichinga, uscirà presumibilmente entro ottobre/novembre, per i tipi della casa editrice QuiEdit. I nostri intrepidi - o, per meglio dire, fin troppo trepidi - viaggiatori, immersi nella cruenta e poetica Norvegia medievale, subiranno il giudizio di fatali indovine e faranno la conoscenza con Snorri Sturluson, prima di ascendere lungo il ponte arcobaleno, diretti all'Ásgarðr, la rocca degli dèi...
Ma intanto, sperando di alimentare le spasmodiche attese dei nostri sedici lettori, ecco qui una scena tratta dal secondo capitolo, in anteprima mondiale assoluta...


Dopo un po’, si ritrovarono in un piazzale gremito di gente. Ovunque chiacchiere, sguardi accesi, risate. Su alcune tavolate erano stati disposti pezzi di carne, pagnotte, formaggi, da cui tutti attingevano, incuranti dei nugoli di mosche che vi ronzavano sopra. Gli edifici di legno erano piuttosto grandi, con l’erba che cresceva sugli spioventi dei tetti. Si udiva l’abbaiare dei cani, lo starnazzare delle oche, il nitrire dei pony nei recinti.
Rompini si guardò intorno. “Deve essere una specie di Festa dell’Unità. Vedrete che a sera verrà un’orchestrina e si ballerà il liscio. Chissà dov’è il carrozzone della zingara.”
“Stai parlando della völva, immagino” osservò Luciano.
“Sì, la fattucchiera che legge la mano. Proviamo a chiedere a qualcuno.”
“Ragioniere, siamo qui per cercare un passaggio, non per dedicarci alla chiromanzia” gli ricordò Gustav.
“Ma se è una veggente, saprà dirci dove trovare un ferry-boat.” Rompini venne distratto da un allegro vociare. “Guardate! Birra gratis!”
Presso un calderone schiumante due biondissime fanciulle distribuivano corni colmi di birra a chiunque si facesse avanti.
“Evaristo!” lo richiamò Pazienza.
“Quante storie. Un sorso di Tuborg non si nega a nessuno!” E Rompini partì, calamitato, in direzione della mescita. “Heilar, fögo meyjar!” disse alle fanciulle. “Þat myndi vera drykkr öls fyrir mik?" [Salve, belle fanciulle! Ci sarebbe un sorso di birra per me?]
En já, fitjungi! Hér þú fara horn!" [Ma sì, pancione! Ecco a te un corno!]
Le ragazze gli servirono un corno di uro, pieno fino all’orlo di birra schiumante, e due dolcissimi sorrisi.
Tutto pimpante, Rompini si spostò alla tavolata e agguantò un pezzo di pane, una cotoletta di maiale e una forma di cacio, tra lo stupore di un equipaggio vichingo. Gli dissero qualcosa, e il ragioniere, con il corno in una mano e le cibarie strette contro il petto, rispose a viva voce. I vichinghi dovettero trovar divertenti le sue parole, perché scoppiarono tutti a ridere.
“È incredibile come riesca ad essere subito simpatico!” esclamò Sofia.
“Già, ma non ci è di alcun aiuto” sospirò Gustav. “Non ci resta che trovare il proprietario di una nave e convincerlo a darci un passaggio.”
Luciano aveva l’aria preoccupata. “Le navi sono finanziate da società di mercanti e armatori, chiamati félagi. Dato che siamo a metà estate, la maggior parte delle imbarcazioni che si trovano ad Áróss sono di passaggio e sicuramente sono già state stivate con grossi carichi. Tuttavia, gli itinerari verranno discussi in questi giorni.”
“Non credevo fosse così complicato!” sbottò Latinis.
“Questa è gente pratica, professore, e difficilmente troveremo qualcuno disposto a salpare per la Svezia soltanto per farci un favore. Se siamo fortunati, ci vorranno dei giorni per lasciare il Danmörk…”
Latinis si trattenne a fatica. “Non mi importa di essere in perenne ritardo. Ma non voglio rimanere a lungo in questo posto puzzolente!”
“Il professore sta per perdere le staffe” sussurrò Gustav.
“Anche la moglie del ragioniere mi sembra indispettita.” Sofia parlava a bassa voce. “Guarda come lo sta osservando accigliata. Non gli perdonerà mai di averla portata in vacanza in un villaggio vichingo.”
I danesi erano alti e robusti, decisamente muscolosi, con facce arrossate dal sole. Temibili all’apparenza, avevano occhi chiari, trasparenti come quelli di un bambino. Gli uomini indossavano brache e camicioni, con bei mantelli gettati sulle possenti spalle. Portavano i capelli lunghi, la barba e i baffi ben sagomati. Le donne erano abbigliate con vesti colorate e fazzoletti sul capo. I bambini, sommariamente vestiti, correvano qua e là, tra oche e cani, divertendosi un mondo.
Rompini si avvicinò reggendo il corno in una mano e nell’altra una pagnotta imbottita. “Se vi affrettate, è rimasto ancora del maiale. La birra però non ve la consiglio. È annacquata, sgasata, con un fondo alto un dito. E poi dicono le cervoge danesi! Ma la sete è sete!”
“Evaristo! Stiamo cercando di uscire da una brutta situazione e tu non fai che ingozzarti!” lo rimproverò Pazienza.
“Oh, non preoccuparti, moglie! Finché c’è porchetta c’è speranza!”
“Io non ho alcuna voglia di rimanere in questo posto, vestita come una regina longobarda!”
“Ma se stai benissimo!” Rompini ingollò la pagnotta e diede fondo al corno. Si pulì la bocca passandovi davanti tutta l’estensione del braccio. “Che succede, lì? Forse c’è lo stand dei tappi…”
I presenti si affollavano davanti a un edificio poco più grande degli altri. Era difficile vedere cosa stesse accadendo, tanto la folla era compatta.
Luciano sollevò i sopraccigli. “Deve esserci la völva.”
“Dài, Pazienza, andiamo a vedere la zingara. Largo!”
Rompini s’insinuò a spallate tra la folla, aprendo un varco affinché gli altri potessero seguirlo. Ai piedi dell’edificio, assisa su uno sgabello, stava la veggente. Sedeva col busto rigido e il capo eretto, i capelli color cenere circondati da una fascia. Impugnava una verga sulla quale era impilato un cranio di cavallo, e indossava una lunga veste, grigia come i suoi occhi.
La folla la circondava in semicerchio. A tratti, qualcuno si faceva avanti e, dopo aver deposto un piccolo dono ai suoi piedi, la interrogava. La donna chinava il capo e attendeva lunghi istanti prima di rispondere, con voce roca. Chi si allontanava lieto e sereno, chi un po’ turbato, ma nessuno sembrava insoddisfatto. Un mercante si mise a ridere, felice, e se ne andò a lunghi passi. Un altro, più magro, scosse il capo, come se il giudizio non fosse stato di suo gradimento. Ma la maggior parte dei postulanti accettava il responso, qualunque esso fosse, rizzando le spalle con virile fatalismo.
“A dirla tutta, mi intimorisce un po’” sussurrò Sofia.
“Ragioniere, perché non le chiede se…” iniziò Gustav, e subito fece cadere la domanda, accorgendosi che la veggente li aveva notati.
La donna stava col capo ritto, voltato verso di loro. Il suo sguardo inquadrò Pazienza e Rompini, e si distese. Si posò sul professore, e si accigliò. Indugiò su Sofia, come se cercasse di mettere a fuoco un dettaglio indefinibile. Veleggiò quindi su Gustav, e qualcosa parve rasserenarla.
I viaggiatori affrontarono quell’esame rigidi e immobili.
“Chi siete voi, che non appartenete al mondo?” La veggente parlò con voce morbida. “Riconosco gli abiti, ma non i volti e gli sguardi.”
Sofia sussultò, stupita della naturalezza con cui la donna aveva spezzato la barriera linguistica.
“Noi siamo viaggiatori dell’irrealtà, signora.” Gustav fu il primo a ritrovare la parola, e il suo tono era colmo di rispetto.
“Voi dunque percorrete strade che il mondo non contiene.” Scrollò il capo. “Anch’io percorro i sentieri irreali.”
“Davvero?” si stupì Sofia. “Ma tu chi sei?”
“Ero una fanciulla, un tempo, e sedevo sulla porta della mia dimora” fu l’enigmatica risposta della völva. “Giunse a me un uomo e fissò il suo unico occhio nei miei. Ero giovane, e osai irriderlo. «So tutto di te, Oðinn! So dove nascondesti il tuo occhio, nella sorgente di Mímir!» Egli mi donò anelli e collane, e la verga della profezia.” Sollevò il suo bastone. “Divenni una völva, e il mio sguardo iniziò a spingersi lontano. Dal recinto degli uomini, si leva con ali d’aquila e vola ai confini del mondo, nel gelo dove dimorano i giganti. Scende alle radici del grande frassino, tra le nebbie della casa dei morti, e poi s’innalza oltre l’arcobaleno, al regno degli dèi. Dagli inizi, in cui la terra usciva dalla sua fucina di fuoco e di ghiaccio, si spinge al tramonto del tempo, quando il mondo arderà e gli dèi cadranno!”
“Il fato è dunque sotto la radice della tua lingua?” si fece avanti Luciano.
Qualcosa nello sguardo della donna si accese di luce allarmata. “È inutile che io ti riveli ciò che non capiresti.”
“Altro non potevo aspettarmi da una strega!”
“Allora non farmi domande e volgi il tuo malanimo altrove.”
La völva scivolò dallo sgabello e s’inginocchiò a terra. Trasse un sacchetto di pelle dalla cintura, vi infilò la mano e sparse sul panno bianco steso davanti a lei delle pietruzze levigate, piccoli ciottoli raccolti sul greto di un fiume, su cui erano incisi dei segni angolati, dipinti di nero o di rosso. Abbassò la mano e cominciò a mescolarli con movimenti sapienti delle dita.
Gustav si chinanò verso l’orecchio di Sofia. “Rune. L’alfabeto magico dei Germani. La völva sta eseguendo una divinazione.”
Latinis sbuffò. “Tacito accenna a queste pratiche e, per quanto mi riguarda, non sono affatto curioso di apprendere oltre…”
“Fa’ silenzio, uomo di Roma!” gridò la völva, sollevando di scatto il capo. “Non essere fiero del tuo sapere congelato, tu che procedi senza concessioni e ripensamenti!”
Tanta veemenza ebbe, incredibilmente, l’effetto di zittire il vecchio professore. La veggente tornò a fissare davanti a sé.
“Rune di fuoco e gelo danzano sulla punta delle mie dita, i Nove Mondi volano nel mio sguardo e le Nornir tessono i fili del fato.” La donna scelse una runa, poi una seconda, poi una terza, e le mise in fila davanti a sé.
Reið, áss, dagr” compitò, sfiorando i tre simboli con l’unghia.
Raccolse una per una le tre pietruzze e, levatasi in piedi, lasciò scivolare il suo sguardo su Virgilio. “Reið, che sovrintende ai viaggi, siano spostamenti di uomini e merci attraverso le polverose strade della terra o cavalcate irreali compiute in spirito e sogni.” Gli pose la pietruzza sul palmo della mano e gli richiuse le dita. “Le strade dell’irrealtà si schiuderanno sempre davanti al tuo cocchio, o viaggiatore senza tempo.”
“Grazie.” Virgilio arrossì come uno scolaretto. “È un ottimo auspicio.”
La völva mostrò la seconda pietruzza.
Áss, la runa divina… ironia o destino?” Agguantò la mano di Luciano e il giovane sussultò sentendola ardere nel suo palmo. “Il mondo è il tempo degli uomini e ogni essere ha il proprio destino ineluttabile. Per quanto atroce, la legge di Urðr s’impone anche agli dèi. Non si può sfuggire al fato, ma solo affrontarlo. A testa alta e senza rimpianti, virilmente e nobilmente.”
“In quanto a questo, vedremo!” scattò Luciano.
La völva si staccò da lui e sollevò la terza pietruzza. “Dalle fredde origini del mondo al rovente incendio che lo ridurrà in cenere. Ma dagr è anche l’alba che spazza via la notte, è il passaggio e la trasformazione. È il fuoco che distrugge e il fuoco che crea, due aspetti dello stesso elemento.” Il suo sguardo si addolcì, quando incontrò quello di Sofia. “Tu ed io, fanciulla, attingiamo alla stessa sorgente, abbiamo gli stessi occhi.”
Si scostò e Sofia batté le palpebre. Aprì la mano e vi trovò, nel palmo, la terza e ultima pietruzza.
“Non capisco perché veggenti, indovini e profeti debbano sempre parlare per enigmi” commentò acre Latinis.
“Allora tu sappi, uomo di Roma, e il mio non è certo un enigma, che io sarò la tua ombra!” esclamò la donna. “Mi rivedrai, al mio tumulo sepolcrale, quando il mondo sarà giunto alla fine e il fuoco arriverà fino al cielo!” Si coprì il volto, con un gesto violento. “E ora andate! Via!”