martedì 3 agosto 2010

Viaggio irreale nella Scandinavia vichinga - Incontro con la völva

Il terzo libro della serie Agenzia Senzatempo, Viaggio irreale nella Scandinavia vichinga, uscirà presumibilmente entro ottobre/novembre, per i tipi della casa editrice QuiEdit. I nostri intrepidi - o, per meglio dire, fin troppo trepidi - viaggiatori, immersi nella cruenta e poetica Norvegia medievale, subiranno il giudizio di fatali indovine e faranno la conoscenza con Snorri Sturluson, prima di ascendere lungo il ponte arcobaleno, diretti all'Ásgarðr, la rocca degli dèi...
Ma intanto, sperando di alimentare le spasmodiche attese dei nostri sedici lettori, ecco qui una scena tratta dal secondo capitolo, in anteprima mondiale assoluta...


Dopo un po’, si ritrovarono in un piazzale gremito di gente. Ovunque chiacchiere, sguardi accesi, risate. Su alcune tavolate erano stati disposti pezzi di carne, pagnotte, formaggi, da cui tutti attingevano, incuranti dei nugoli di mosche che vi ronzavano sopra. Gli edifici di legno erano piuttosto grandi, con l’erba che cresceva sugli spioventi dei tetti. Si udiva l’abbaiare dei cani, lo starnazzare delle oche, il nitrire dei pony nei recinti.
Rompini si guardò intorno. “Deve essere una specie di Festa dell’Unità. Vedrete che a sera verrà un’orchestrina e si ballerà il liscio. Chissà dov’è il carrozzone della zingara.”
“Stai parlando della völva, immagino” osservò Luciano.
“Sì, la fattucchiera che legge la mano. Proviamo a chiedere a qualcuno.”
“Ragioniere, siamo qui per cercare un passaggio, non per dedicarci alla chiromanzia” gli ricordò Gustav.
“Ma se è una veggente, saprà dirci dove trovare un ferry-boat.” Rompini venne distratto da un allegro vociare. “Guardate! Birra gratis!”
Presso un calderone schiumante due biondissime fanciulle distribuivano corni colmi di birra a chiunque si facesse avanti.
“Evaristo!” lo richiamò Pazienza.
“Quante storie. Un sorso di Tuborg non si nega a nessuno!” E Rompini partì, calamitato, in direzione della mescita. “Heilar, fögo meyjar!” disse alle fanciulle. “Þat myndi vera drykkr öls fyrir mik?" [Salve, belle fanciulle! Ci sarebbe un sorso di birra per me?]
En já, fitjungi! Hér þú fara horn!" [Ma sì, pancione! Ecco a te un corno!]
Le ragazze gli servirono un corno di uro, pieno fino all’orlo di birra schiumante, e due dolcissimi sorrisi.
Tutto pimpante, Rompini si spostò alla tavolata e agguantò un pezzo di pane, una cotoletta di maiale e una forma di cacio, tra lo stupore di un equipaggio vichingo. Gli dissero qualcosa, e il ragioniere, con il corno in una mano e le cibarie strette contro il petto, rispose a viva voce. I vichinghi dovettero trovar divertenti le sue parole, perché scoppiarono tutti a ridere.
“È incredibile come riesca ad essere subito simpatico!” esclamò Sofia.
“Già, ma non ci è di alcun aiuto” sospirò Gustav. “Non ci resta che trovare il proprietario di una nave e convincerlo a darci un passaggio.”
Luciano aveva l’aria preoccupata. “Le navi sono finanziate da società di mercanti e armatori, chiamati félagi. Dato che siamo a metà estate, la maggior parte delle imbarcazioni che si trovano ad Áróss sono di passaggio e sicuramente sono già state stivate con grossi carichi. Tuttavia, gli itinerari verranno discussi in questi giorni.”
“Non credevo fosse così complicato!” sbottò Latinis.
“Questa è gente pratica, professore, e difficilmente troveremo qualcuno disposto a salpare per la Svezia soltanto per farci un favore. Se siamo fortunati, ci vorranno dei giorni per lasciare il Danmörk…”
Latinis si trattenne a fatica. “Non mi importa di essere in perenne ritardo. Ma non voglio rimanere a lungo in questo posto puzzolente!”
“Il professore sta per perdere le staffe” sussurrò Gustav.
“Anche la moglie del ragioniere mi sembra indispettita.” Sofia parlava a bassa voce. “Guarda come lo sta osservando accigliata. Non gli perdonerà mai di averla portata in vacanza in un villaggio vichingo.”
I danesi erano alti e robusti, decisamente muscolosi, con facce arrossate dal sole. Temibili all’apparenza, avevano occhi chiari, trasparenti come quelli di un bambino. Gli uomini indossavano brache e camicioni, con bei mantelli gettati sulle possenti spalle. Portavano i capelli lunghi, la barba e i baffi ben sagomati. Le donne erano abbigliate con vesti colorate e fazzoletti sul capo. I bambini, sommariamente vestiti, correvano qua e là, tra oche e cani, divertendosi un mondo.
Rompini si avvicinò reggendo il corno in una mano e nell’altra una pagnotta imbottita. “Se vi affrettate, è rimasto ancora del maiale. La birra però non ve la consiglio. È annacquata, sgasata, con un fondo alto un dito. E poi dicono le cervoge danesi! Ma la sete è sete!”
“Evaristo! Stiamo cercando di uscire da una brutta situazione e tu non fai che ingozzarti!” lo rimproverò Pazienza.
“Oh, non preoccuparti, moglie! Finché c’è porchetta c’è speranza!”
“Io non ho alcuna voglia di rimanere in questo posto, vestita come una regina longobarda!”
“Ma se stai benissimo!” Rompini ingollò la pagnotta e diede fondo al corno. Si pulì la bocca passandovi davanti tutta l’estensione del braccio. “Che succede, lì? Forse c’è lo stand dei tappi…”
I presenti si affollavano davanti a un edificio poco più grande degli altri. Era difficile vedere cosa stesse accadendo, tanto la folla era compatta.
Luciano sollevò i sopraccigli. “Deve esserci la völva.”
“Dài, Pazienza, andiamo a vedere la zingara. Largo!”
Rompini s’insinuò a spallate tra la folla, aprendo un varco affinché gli altri potessero seguirlo. Ai piedi dell’edificio, assisa su uno sgabello, stava la veggente. Sedeva col busto rigido e il capo eretto, i capelli color cenere circondati da una fascia. Impugnava una verga sulla quale era impilato un cranio di cavallo, e indossava una lunga veste, grigia come i suoi occhi.
La folla la circondava in semicerchio. A tratti, qualcuno si faceva avanti e, dopo aver deposto un piccolo dono ai suoi piedi, la interrogava. La donna chinava il capo e attendeva lunghi istanti prima di rispondere, con voce roca. Chi si allontanava lieto e sereno, chi un po’ turbato, ma nessuno sembrava insoddisfatto. Un mercante si mise a ridere, felice, e se ne andò a lunghi passi. Un altro, più magro, scosse il capo, come se il giudizio non fosse stato di suo gradimento. Ma la maggior parte dei postulanti accettava il responso, qualunque esso fosse, rizzando le spalle con virile fatalismo.
“A dirla tutta, mi intimorisce un po’” sussurrò Sofia.
“Ragioniere, perché non le chiede se…” iniziò Gustav, e subito fece cadere la domanda, accorgendosi che la veggente li aveva notati.
La donna stava col capo ritto, voltato verso di loro. Il suo sguardo inquadrò Pazienza e Rompini, e si distese. Si posò sul professore, e si accigliò. Indugiò su Sofia, come se cercasse di mettere a fuoco un dettaglio indefinibile. Veleggiò quindi su Gustav, e qualcosa parve rasserenarla.
I viaggiatori affrontarono quell’esame rigidi e immobili.
“Chi siete voi, che non appartenete al mondo?” La veggente parlò con voce morbida. “Riconosco gli abiti, ma non i volti e gli sguardi.”
Sofia sussultò, stupita della naturalezza con cui la donna aveva spezzato la barriera linguistica.
“Noi siamo viaggiatori dell’irrealtà, signora.” Gustav fu il primo a ritrovare la parola, e il suo tono era colmo di rispetto.
“Voi dunque percorrete strade che il mondo non contiene.” Scrollò il capo. “Anch’io percorro i sentieri irreali.”
“Davvero?” si stupì Sofia. “Ma tu chi sei?”
“Ero una fanciulla, un tempo, e sedevo sulla porta della mia dimora” fu l’enigmatica risposta della völva. “Giunse a me un uomo e fissò il suo unico occhio nei miei. Ero giovane, e osai irriderlo. «So tutto di te, Oðinn! So dove nascondesti il tuo occhio, nella sorgente di Mímir!» Egli mi donò anelli e collane, e la verga della profezia.” Sollevò il suo bastone. “Divenni una völva, e il mio sguardo iniziò a spingersi lontano. Dal recinto degli uomini, si leva con ali d’aquila e vola ai confini del mondo, nel gelo dove dimorano i giganti. Scende alle radici del grande frassino, tra le nebbie della casa dei morti, e poi s’innalza oltre l’arcobaleno, al regno degli dèi. Dagli inizi, in cui la terra usciva dalla sua fucina di fuoco e di ghiaccio, si spinge al tramonto del tempo, quando il mondo arderà e gli dèi cadranno!”
“Il fato è dunque sotto la radice della tua lingua?” si fece avanti Luciano.
Qualcosa nello sguardo della donna si accese di luce allarmata. “È inutile che io ti riveli ciò che non capiresti.”
“Altro non potevo aspettarmi da una strega!”
“Allora non farmi domande e volgi il tuo malanimo altrove.”
La völva scivolò dallo sgabello e s’inginocchiò a terra. Trasse un sacchetto di pelle dalla cintura, vi infilò la mano e sparse sul panno bianco steso davanti a lei delle pietruzze levigate, piccoli ciottoli raccolti sul greto di un fiume, su cui erano incisi dei segni angolati, dipinti di nero o di rosso. Abbassò la mano e cominciò a mescolarli con movimenti sapienti delle dita.
Gustav si chinanò verso l’orecchio di Sofia. “Rune. L’alfabeto magico dei Germani. La völva sta eseguendo una divinazione.”
Latinis sbuffò. “Tacito accenna a queste pratiche e, per quanto mi riguarda, non sono affatto curioso di apprendere oltre…”
“Fa’ silenzio, uomo di Roma!” gridò la völva, sollevando di scatto il capo. “Non essere fiero del tuo sapere congelato, tu che procedi senza concessioni e ripensamenti!”
Tanta veemenza ebbe, incredibilmente, l’effetto di zittire il vecchio professore. La veggente tornò a fissare davanti a sé.
“Rune di fuoco e gelo danzano sulla punta delle mie dita, i Nove Mondi volano nel mio sguardo e le Nornir tessono i fili del fato.” La donna scelse una runa, poi una seconda, poi una terza, e le mise in fila davanti a sé.
Reið, áss, dagr” compitò, sfiorando i tre simboli con l’unghia.
Raccolse una per una le tre pietruzze e, levatasi in piedi, lasciò scivolare il suo sguardo su Virgilio. “Reið, che sovrintende ai viaggi, siano spostamenti di uomini e merci attraverso le polverose strade della terra o cavalcate irreali compiute in spirito e sogni.” Gli pose la pietruzza sul palmo della mano e gli richiuse le dita. “Le strade dell’irrealtà si schiuderanno sempre davanti al tuo cocchio, o viaggiatore senza tempo.”
“Grazie.” Virgilio arrossì come uno scolaretto. “È un ottimo auspicio.”
La völva mostrò la seconda pietruzza.
Áss, la runa divina… ironia o destino?” Agguantò la mano di Luciano e il giovane sussultò sentendola ardere nel suo palmo. “Il mondo è il tempo degli uomini e ogni essere ha il proprio destino ineluttabile. Per quanto atroce, la legge di Urðr s’impone anche agli dèi. Non si può sfuggire al fato, ma solo affrontarlo. A testa alta e senza rimpianti, virilmente e nobilmente.”
“In quanto a questo, vedremo!” scattò Luciano.
La völva si staccò da lui e sollevò la terza pietruzza. “Dalle fredde origini del mondo al rovente incendio che lo ridurrà in cenere. Ma dagr è anche l’alba che spazza via la notte, è il passaggio e la trasformazione. È il fuoco che distrugge e il fuoco che crea, due aspetti dello stesso elemento.” Il suo sguardo si addolcì, quando incontrò quello di Sofia. “Tu ed io, fanciulla, attingiamo alla stessa sorgente, abbiamo gli stessi occhi.”
Si scostò e Sofia batté le palpebre. Aprì la mano e vi trovò, nel palmo, la terza e ultima pietruzza.
“Non capisco perché veggenti, indovini e profeti debbano sempre parlare per enigmi” commentò acre Latinis.
“Allora tu sappi, uomo di Roma, e il mio non è certo un enigma, che io sarò la tua ombra!” esclamò la donna. “Mi rivedrai, al mio tumulo sepolcrale, quando il mondo sarà giunto alla fine e il fuoco arriverà fino al cielo!” Si coprì il volto, con un gesto violento. “E ora andate! Via!”

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